Disastri aerei, più certezze dal Dna

    Basta uno spazzolino da denti per identificare, attraverso piccoli frammenti di Dna, la vittima di un disastro. Lo hanno dimostrato i ricercatori del Suffolk County Crime Laboratory di Hauppauge, a New York, che hanno di recente concluso le indagini per il riconoscimento dei corpi dell’incidente aereo della Twa, avvenuto nel luglio scorso a largo di Long Island, in cui persero la vita circa 230 persone. Una delle vittime era irriconoscibile. Dal suo spazzolino, trovato a casa, gli scienziati hanno ricostruito il Dna e lo hanno confrontato con quello dei resti rimasti non identificati. Così è stato possibile dare un nome anche all’ultimo cadavere.

    La tecnica utilizzata è quella del “Dna fingerprinting” o impronta del Dna, messa a punto da A. Jeffreys, il biotecnologo inglese che, nel 1983, scoprì come il materiale genetico di ogni individuo contenga sequenze uniche di basi nucleotidiche. Così, quando il campione viene fatto “digerire” da enzimi e separato su un gel, emerge in rilievo una serie di bande, secondo un disegno che cambia da una persona all’altra. E’ questa l’inconfutabile impronta genetica.

    A tutt’oggi la tecnologia è utilizzata in alcuni casi dal mondo giudiziario, nel tentativo di risalire all’assassino di oscuri e irrisolti omicidi. Ma i primi a verificare che il metodo funziona anche per ridare identità ai corpi straziati di un disastro aereo – ma potrebbe essere anche un terremoto o un’esplosione – sono stati alcuni ricercatori norvegesi guidati da Bjornar Olaisen, autori di un articolo sull’attuale numero di Nature Genetics. Loro dovevano capire a chi appartenessero le 257 parti di membra umane che era quanto rimaneva dei 141 passeggeri di un aereo russo caduto, nell’agosto del `96, su Spitsbergen Island, nella Norvegia del nord. In sole tre settimane, i ricercatori hanno identificato 141 tipi diversi di Dna, l’impronta di ogni vittima, e per 139 di loro è stato possibile un’ulteriore verifica attraverso il prelievo di campioni di sangue dai familiari, mentre solo per gli altri due è stato necessario utilizzare metodi alternativi.

    “I norvegesi hanno svolto un lavoro fantastico”, afferma Jack Ballantyne, capo del laboratorio di Hauppauge che ha analizzato i resti dei corpi dilaniati dall’esplosione del Twa 800. “Ma bisogna dire che sono stati anche fortunati: le temperature di Spitsbergen, che si aggiravano allora attorno ai 0 gradi Celsius, hanno permesso una buona conservazione dei tessuti e un veloce recupero dei corpi”. Ballantyne, non crede, a differenza dei norvegesi, che il Dna fingerprintings possa diventare il principale metodo per il riconoscimento delle salme o, addirittura, soppiantare le tecniche normalmente utilizzate come, per esempio, i raggi X e le impronte digitali. Semmai, è destinato a essere utilizzato in associazione con quelli attuali.

    Diverse sono, infatti, le difficoltà legate all’applicazione delle impronte genetiche. Ricostruire un identikit del Dna richiede diversi giorni o settimane, contro i pochi giorni che occorrono con le tradizionali metodologie. L’identificazione può essere rapida se supportata da chiari resti dentali, ma in altri casi può richiedere diversi mesi. E non solo. Recuperare anche piccoli frammenti di Dna dai corpi severamente danneggiati può essere molto difficile se non impossibile, specie se si tratta di parti sommerse a lungo in acqua o bruciate, come nel caso dell’incidente del Twa 800 o nell’episodio della setta suicida di Waco in Texas. Inoltre, l’eventuale presenza di fratelli, specie se gemelli, permette di risalire al patrimonio genetico familiare, ma non di distinguere le parti dei due individui. Per tutti questi motivi, il successo del Dna-fingerprintings può essere garantito nel 70-80 per cento dei casi.

    “Questa tecnologia, sebbene ormai disponibile e utile, richiede molto lavoro, molto tempo e molto denaro”, precisa Ballantyne. E viene da chiedersi fino a che punto ha senso sapere a quale cadavere appartiene un minuscolo tessuto o un frammento di oggetto intimo.

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