Numeri segreti

Al MIT la distanza tra ricerca e applicazioni è molto breve, e una buona idea può diventare un brevetto, quindi un prodotto. Anche un’idea matematica.

Silvio Micali ha brevettato metodi matematici per codificare messaggi. Di origine siciliana, si è laureato a Roma in matematica, specializzandosi successivamente in informatica teorica all’Università della California, a Berkley. Incarna, in certo qual modo, il ruolo del ricercatore contemporaneo, rappresentante della cultura informatica più avanzata e nello stesso tempo portavoce delle tradizioni matematiche più pure e antiche. Micali, infatti, impiega una disciplina nata secoli prima che gli elaboratori vedessero la luce, la teoria dei numeri (che studia i numeri interi, le relazioni tra di essi e le loro proprietà) per arrivare ad applicazioni molto concrete nel settore della comunicazione via computer.

Definita da Carl Friederich Gauss regina della matematica, la teoria dei numeri è stata tradizionalmente considerata una delle discipline più lontane dal mondo reale e da ogni possibile impiego pratico. Ma ciò non è più vero, almeno da qualche anno a questa parte. Proprio alcuni risultati raggiunti dagli studiosi di teoria dei numeri, infatti, servono come base non solo per risolvere raffinati giochi della mente, ma sono anche indispensabili allo sviluppo dell’informatica e delle comunicazioni digitali. Ad esempio, lo studio dei numeri primi, cioè dei numeri che sono divisibili solamente per se stessi e per l’unità, fornisce alcuni degli strumenti necessari alla trasmissione di messaggi cifrati lungo le autostrade dell’informazione.

Micali, per addentrarsi nei meandri della sicurezza informatica, trasforma la teoria in pratica: sulla sua lavagna, un teorema sulla scomposizione di un numero in fattori primi può diventare il meccanismo per trasmettere un messaggio in codice; un’idea logica può diventare una firma digitalizzata che è impossibile falsificare.

Brillante ed estroverso, Micali ama molto parlare della matematica, riflettere sul significato del proprio lavoro e sul rapporto affettivo con la propria ricerca. tra i temi che lo affascinano vi è lo studio della casualità e delle problematiche della segretezza, della verifica dei messaggi, della trasmissione in codice, della stesura di protocolli per la comunicazione digitale.

“Il collo di bottiglia dell’attuale tecnologia informatica non è la capacità di calcolo, ma la comunicazione. Intendo dire che quando tutto il mondo sarà messo in rete, e tutti potranno comunicare con tutti e mandare messaggi, effettuare transazioni bancarie, inviare documenti per via elettronica, diventerà fortissima l’esigenza di rigorose procedure per controllare che le operazioni effettuate siano corrette e possano resistere a ogni tentativo di spionaggio e di contraffazione”.

La prima volta che lo incontrai al dipartimento di Computer Science, Micali mi parlò di casualità. Una casualità molto particolare, tutta costruita al calcolatore. Una casualità pragmatica, operativa. Il ricercatore si dedicava alla costruzione di algoritmi per ottenere stringhe casuali, cioè successione di cifre scelte a caso che, quindi, non possiedono alcuna regolarità (un algoritmo è uno schema o procedimento sistematico di calcolo; in informatica è un insieme finito di passi, che il calcolatore deve effettuare per arrivare alla soluzione di un problema).

L’idea di costruire qualcosa di casuale sembra una contraddizione in termini. E, infatti, per sottolineare questa apparente incoerenza, i numeri casuali costruiti attraverso regole matematiche vengono definiti quasi-casuali o pseudo-casuali. Ma le cose sono più sfumate di quanto sembri.

Casuale nel senso comune del termine, è un evento non prevedibile. L’evento più classico di casualità è il risultato del lancio di una moneta. Ma il risultato del lancio di una moneta potrebbe anche non essere considerato casuale, bensì solo troppo complesso per essere prevedibile. In teoria, ma solo in teoria, se si conoscessero in dettaglio tutti i dati di partenza, la spinta della mano, il peso della moneta, l’attrito dell’aria, e se si avesse a disposizione un computer sufficientemente potente, per tutto il tempo necessario, si potrebbe pensare di calcolare il risultato, applicando le leggi della fisica. Viceversa, una successione di numeri costruita artificialmente, in base a una regola matematica, sembrerebbe quanto più lontano dalla casualità. Eppure essa può essere considerata, agli effetti pratici, del tutto casuale. L’importante è usare, per costruirla, una regola sufficientemente potente che renda impossibile ricostruire, a partire da un certo numero di cifre della successione, quali saranno le successive.

“In realtà”, mi spiegò Micali, “un evento casuale ‘non esiste’: la casualità di un evento è relativa al particolare modello di computazione. Tu mi dici che computer usi e quanto tempo hai, e posso dirti che cosa è per te un evento casuale. Se con il tuo computer e il tempo a disposizione non sei in grado di verificare la non casualità della mia successione, allora, per te la mia successione è del tutto casuale. In fondo la casualità è un caso estremo di difficoltà di calcolo”.

Micali ha ideato nuove regole per la formazione di numeri casuali e ha inoltre dimostrato che le successioni così create possono, praticamente, resistere a tutti i tentativi di predizione. Il fatto è che se si volesse verificare che le successioni non sono casuali, ci vorrebbe un tempo di calcolo così lungo da superare le attuali capacità di qualsiasi uomo e di qualsiasi macchina.

Interessante di per sé come tema di ricerca, come spunto per una riflessione filosofica, oppure solamente come gioco matematico, la costruzione di stringhe di numeri casuali rappresenta una risorsa importante per le sue applicazioni di vasta portata nella scienza.

L’impiego più conosciuto avviene nella simulazione. Grazie all’enorme capacità di calcolo degli elaboratori elettronici attuali e alla disponibilità di metodi come il Test di Montecarlo (ideato negli anni Quaranta da John Von Neumann e Stanislav Ulam) è possibile oggi compiere veri e propri esperimenti con il computer che sostituiscono con efficacia prove di laboratorio. Impostando equazioni appropriate che rappresentino un modello del fenomeno in esame e impiegando programmi opportuni, si può verificarne, in una specie di laboratorio virtuale, la possibile evoluzione. I calcoli per rendere una simulazione il più possibile equivalente a un esperimento effettivo, e per ricreare le svariate condizioni che si potrebbero presentare nella realtà, sono possibili proprio grazie all’impiego di stringhe di numeri casuali.

La simulazione consente di fare a meno delle gallerie per verificare l’effetto della turbolenza dell’aria sulle ali di un aeroplano; permette di osservare sullo schermo del proprio terminale l’evoluzione nel tempo di un sistema di stelle binarie o di una galassia lontana. Gli ingegneri dei materiali possono simulare l’effetto dello sforzo su complesse strutture, e i fisici delle particelle simulare cosa succede all’interno degli acceleratori, senza che nessuno di loro debba allontanarsi dal proprio tavolo. L’utilizzo della simulazione cresce insieme all’aumento della potenza di calcolo dei computer e aumenta di conseguenza la necessità di trovare metodi per produrre numeri casuali. “E nessuno, per fare una simulazione, si sognerebbe di lanciare una moneta migliaia e migliaia di volte nell’aria”, mi disse Micali. “Nella scienza la casualità è oggi preziosa come il petrolio”.

Lo studio e la costruzione di numeri casuali e in particolare i teoremi ideati da Micali, hanno impiego anche nella crittografia, la scrittura di messaggi in codice, strumento indispensabile per tutelare la segretezza delle comunicazioni tra governi, banche, industrie. Un esempio di sistema crittografico è la trasmissione di messaggi a chiave pubblica. Se una persona A vuole ricevere messaggi segreti, rende nota una chiave pubblica, (un sistema di codifica), per chiunque voglia comunicare con lei, e tiene segreta una associata chiave privata, (un sistema di decodifica). Una persona che chiamiamo B, elabora un messaggio secondo la chiave pubblica fornita da A, lo invia ad A, che è l’unica persona in grado di decodificare il messaggio. E’ come se A fornisse una cassa con un lucchetto (la chiave pubblica) a chiunque voglia inviarle un messaggio. B infila il messaggio nella cassa, chiude il lucchetto, invia la cassa ad A, che è la sola a possedere il sistema per aprirla (la chiave privata).

La crittografia a chiave pubblica trasforma i messaggi in numeri e realizza il lucchetto matematicamente, utilizzando, per lo più numeri primi molto grandi. Il meccanismo si basa sul fatto che, date le conoscenze attuali, è abbastanza facile scegliere a caso (con algoritmi per la generazione pseudocasuale) due numeri primi piuttosto grandi (di cento cifre ciascuno) e moltiplicarli tra loro, mentre è invece difficilissimo scomporre il prodotto così ottenuto nei due numeri di partenza. Quindi il nostro A potrebbe scegliere i due numeri primi, annunciare il loro prodotto pubblicamente, come chiave pubblica (il lucchetto da distribuire a tutti) e tenere i due numeri primi come chiave privata, con la quale egli è in grado di aprire il lucchetto.

In varie occasioni Micali mi parlò dei temi della propria ricerca. lo fece quasi sempre scrivendo alla lavagna o su un foglio di carta alcuni passaggi matematici per darmi un’idea del complesso apparato di formule, concetti e teoremi che stanno dietro alle parole con le quali avrei scritto l’articolo. Mi parlò di metodi per ottenere firme elettroniche sicure, e cioè sigle inviate via computer che servono a identificare la provenienza di un messaggio senza che ne sia possibile la falsificazione. Mi parlò di conoscenza-zero, la ricerca di metodi per dimostrare che una proposizione è vera senza che sia necessario darne la dimostrazione e quindi svelarne il contenuto .

Immaginiamo”, mi disse, “che il Governo degli Stati Uniti mandi un messaggio cifrato al Governo del Giappone per accordi economici che devono restare segreti. Supponiamo che una terza potenza intercetti il messaggio e voglia avere la prova che non sia un accordo segreto di alleanza tra i due governi per un intervento militare ai suoi danni. Grazie ai metodi che sto studiando insieme ad altri colleghi, gli Stati Uniti possono dimostrare senza ombra di dubbio alla terza potenza che il messaggio cifrato non è un accordo di guerra, senza però essere costretti a rivelarne il contenuto”.

L’ultima volta che lo intervistai mi parlò della teoria dei protocolli, procedure che dettano le regole da seguire affinché un messaggio venga inviato seguendo criteri che ne garantiscano l’efficacia e la veridicità. “Abbiamo messo in rete tutto il mondo”, sottolineò, “e non ci siamo ancora occupati del fatto che una parte dei soggetti coinvolti nella comunicazione possa essere disonesta. La teoria dei protocolli si propone di far funzionare un sistema di comunicazione senza dare per scontato che la gente dica la verità. Diventa quindi importante quando si vuole trovare un accordo ma anche quando è necessario rendere sicure le operazione che vedono coinvolti molti computer collegati in rete, allo scopo di evitare conseguenze negative nel caso in cui una delle macchine smetta di funzionare o venga ‘asservita’ da un avversario”.

Una sera, mi trovai a fare una conversazione un po’ diversa dalle solite. Dopo aver ascoltato e cercato di cogliere le difficili implicazioni della conoscenza-zero, di intuire i complessi metodi per inviare firme elettroniche non falsificabili e di capire le sottigliezze logiche dell’algoritmo bizantino, ultimissima sua area di interesse, gli chiesi: “Perché tanto interesse per il tema della segretezza?”.”Quando ero bambino dipendevo molto, per l’apprendimento, dai miei genitori. Ma avevo un grave problema, desideravo sapere con certezza se mi dicevano la verità e volevo trovare un metodo sicuro per provarlo. Altre volte mi sembrava di non capire quello che i miei genitori mi dicevano. Mi pareva di essere di fronte al tassello di un mosaico di cui mi sfuggiva il disegno generale. Come verificare se il tassello era al posto giusto? Ci doveva essere, pensavo, un modo per poter verificare se un’affermazione è vera, anche se non se ne capisce il significato. Da bambino mi affascinava anche il tema della riservatezza. Come riuscire a essere convincente e allo stesso tempo riservato? Come esprimere quello che vuoi comunicare, essere creduto, senza dovere esplicitare tutto? Un altro problema che mi ha sempre interessato come ricercatore, è il riuscire a determinare rigorosamente la quantità di conoscenza contenuta in un messaggio. Anche qui la motivazione viene dalla mia infanzia: quando parlavo ai grandi mi sembrava spesso che non stessero realmente a sentire. Ma quando chiedevo: “Che cosa ho detto?”, loro erano sempre in grado di ripetere, anche se avevano ascoltato solo una piccola parte del mio discorso, perché erano capaci, sulla base della poca informazione che avevano recepito, di ricavare quello che verosimilmente era il contenuto del mio discorso. Insomma, non riuscivo mai a prenderli in castagna. Come fare a verificare quanto davvero erano stati a sentire? Sono queste preoccupazioni, queste frustrazioni infantili, che hanno trovato posto nella mia vita di ricercatore e mi hanno motivato nel lavoro”.”Ne sei sempre stato consapevole?”“No, me ne sono accorto solo in seguito. Ma ritengo che in ogni caso la molla che spinge nella ricerca sia sempre costituita dalle nostre emozioni”.

Non mi era mai successo che un ricercatore mi parlasse con tanta schiettezza delle motivazioni più profonde della propria ricerca. Tanto più mi stupii di ascoltare queste osservazioni da un matematico. Ma Micali mi corresse: “E’ proprio nella matematica che le emozioni sono particolarmente visibili, perché si è in una situazione di assoluta libertà creativa”.”Come spiegare il significato di tutta questa libertà in seno a una disciplina espressa da rigorosi teoremi, e strutturata all’interno di precise regole logiche?”.”In matematica c’è più libertà rispetto alle altre scienze perché non si è limitati dal fatto che la teoria debba essere corrispondente al mondo fisico. L’unico vincolo a cui un matematico deve sottostare è che, quando trova un teorema, questo sia vero. Ma il vero sta in mille direzioni diverse”.”E’ questo il fascino estetico della matematica di cui parlano tutti i ricercatori?”.”Il fascino estetico della matematica viene dal fatto che il desiderio di capire è connaturato con l’uomo. Se un docente, quando presenta un teorema, riuscisse a mostrare come esso sia nato proprio dal desiderio di capire e riuscisse a mostrare la parte angosciosa e anche esilarante della scoperta, si avrebbe una impressione più forte e più trascinante di quella fornita dalla contemplazione di un capolavoro della pittura. Se si presenta un teorema arrivandoci per la strada maestra, questo straordinario e sofferto percorso conoscitivo non si può sostituire. Sarebbe come arrivare a San Pietro per via della Conciliazione: si vede la piazza da lontano che si ingrandisce piano piano e, quando si arriva, non si è sorpresi. Ben diversa è l’emozione se si arriva alla piazza in modo inaspettato, attraverso una serie di vicoletti laterali”.

Micali parlò del processo creativo che porta a un teorema: “Si parte sempre da una domanda, da una curiosità. All’inizio si ha solamente un’idea vaga che ci sia sotto qualcosa, una legge…Poi riesci a superare gli schermi di fumo che ti impediscono di vedere e metti a fuoco il punto di arrivo. Solo allora provi la straordinaria sensazione di capire che tutto è connesso con tutto, e dalla cascata di connessioni arrivi a mettere il pezzo giusto nel posto giusto nel mosaico. Un mosaico che tu stesso hai costruito. Ma il valore di una teoria non sta nei singoli teoremi. La sua validità va trovata nei concetti che introduce. E se si può dire che un teorema ha un contenuto emotivo, esso nasce proprio dal concetto che rappresenta. Un teorema è bello perché è bella l’idea che esso esprime. Nello sviluppo della matematica l’impresa più affascinante è dare inizio a un nuovo campo di ricerca, fornire un punto di vista originale. E il punto di vista, la parte concettuale, è ben più importante della successione di teoremi che correlano i concetti”. “Insomma che cos’è per te la matematica?”.”La matematica e la logica sono qualcosa di molto umano. Il matematico è una figura antichissima: è l’uomo che ha l’ambizione o la presunzione di poter capire il mondo esterno guardandosi dentro, e ci riesce. La matematica è l’arte di raffinare il mondo esterno fino a ridurlo a problemi esclusivamente interni a te stesso e poi risolverli. Dopo di che non ho difficoltà ad ammettere, contraddicendomi, che sono sempre estremamente sorpreso, quando, dopo l’elaborazione matematica, si arriva a vedere l’identità tra interno ed esterno. Mi stupisco sempre del fatto che, dopo avere schematizzato la realtà in concetti astratti e creato un teorema, questo stesso teorema possa trovare applicazioni nel mondo esterno”. Un’altra risposta del ricercatore mi sorprese. Gli chiesi: “Perché sei qui, al MIT, forse per la straordinaria ricchezza degli strumenti informatici a tua disposizione? Che senso avrebbe la tua ricerca senza calcolatori?”“Sono qui perché mi sento parte di una comunità di persone che condividono le mie curiosità di ricerca. Ma non sono rimasto al MIT perché posso usare computer potenti. L’informatica, per le mie ricerche, fornisce solamente un’interpretazione, uno strumento per mettere alla prova le idee”.

Tratto da: Michela Fontana “Percorsi calcolati . Le nuove avventure della matematica”, Le Mani (1996).

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