Il compromesso e la speranza

Esattamente una settimana fa, nella notte di venerdì 17 luglio, la Conferenza Diplomatica dell’Onu riunita a Roma si è chiusa con l’adozione dello statuto della prima Corte penale internazionale, chiamata a giudicare i crimini di guerra e contro l’umanità, il genocidio, l’aggressione. Il giorno dopo, la stampa italiana ha salutato l’evento titolando: “Nasce la Corte mondiale, America battuta” (Corriere della Sera), ma anche “Il tribunale dei potenti: la corte internazionale a misura degli Stati Uniti” (il Manifesto). Questo statuto “bilanciato”, frutto di estenuanti virtuosismi diplomatici, soddisfa e delude. Gli Stati promotori, fra cui il Canada, le nazioni dell’Europa del nord, l’Italia, e molti paesi Africani, del Sud America e dell’Asia, registrano il successo di cinque settimane di trattative: lo statuto esiste, la Corte si farà. Ma molte organizzazioni non governative parlano di compromesso, di tradimento dello spirito originario. “Affamare deliberatamente la popolazione civile, come si sta facendo nel sud del Sudan, non sarebbe un crimine perseguibile dell’attuale Corte, così come uccidere col gas donne bambini e uomini curdi”, ha dichiarato per esempio Pierre Sane, segretario generale di Amnesty International. In questo quadro fa eccezione “Non c’è pace senza giustizia”, che per voce di Emma Bonino non ha nascosto la sua soddisfazione per l’esito di una battaglia nella quale è stata in prima fila.

Ci si chiede dunque: il documento attualmente alla firma degli Stati prelude alla creazione di un tribunale che agirà in difesa delle vittime delle più atroci violenze, o regolamenterà un’istituzione di facciata, senza alcuna vera autonomia rispetto al volere dei potenti della Terra? Ovviamente, a far vedere il bicchiere o mezzo pieno o mezzo vuoto giocano le posizioni politiche e ideologiche di chi guarda: gli Stati Uniti, per esempio, hanno argomentato il loro disaccordo sostenendo che il Pubblico ministero del futuro tribunale avrebbe troppi poteri. Ma cosa prevede effettivamente questo statuto? Chi e cosa garantisce, e in quali casi? Proviamo ad immaginare alcuni ipotetici scenari futuri, e vediamo in che modo potrebbe intervenire la Corte penale mondiale, sulla base del neonato statuto.

Lo Stato A invade lo Stato B. A e B hanno entrambi firmato il trattato del 17 luglio. Il procuratore della corte internazionale può avviare le indagini, ma solo dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dato il suo parere riguardo all’avvenuta aggressione. Infatti, in base all’articolo 39 della Carta delle Nazioni Unite, sta a questo organo dell’Onu pronunciarsi al proposito, e dire se esistono condizioni di minaccia alla pace. Rispetto a quello che è avvenuto fino ad oggi, ci sarebbe comunque il vantaggio che, una volta autorizzato a procedere, il procuratore avrebbe la piena autonomia, anche dalle Nazioni Unite, nelle indagini e nell’attivazione dei procedimenti penali. Ma cosa succede se solo B, lo Stato aggredito, ha firmato lo statuto? In questo caso, il tribunale internazionale non avrebbe alcun potere di intervento. Però, allo Stato A può essere richiesto di accettare la giurisdizione della Corte, limitatamente a quel crimine. Ovviamente, il paese aggressore potrà sempre rifiutare, ma si troverebbe a dover sostenere la sua posizione di fronte all’opinione pubblica mondiale. E questo potrebbe non essere facile.

Mettiamo invece il caso di due Stati in guerra. Un terzo, militarmente più potente, interviene in appoggio di uno dei due. I suoi soldati obbligano alla prostituzione, impongono gravidanze forzate, commettono stupri – reati che nello statuto rientrano tra i crimini di guerra – nei confronti della popolazione civile “avversaria”. Tutte e tre le nazioni hanno aderito allo statuto. Il procuratore riceve la denuncia, mettiamo da parte di un’organizzazione non governativa. In teoria, la Corte può intervenire contro tali reati, ma potrebbe anche non avere facoltà di procedere. Infatti, secondo un’opzione introdotta su richiesta della Francia – detta “opting-out” – la nazione sotto accusa può sottrarsi alla giurisdizione della corte per un periodo di sette anni a partire dalla propria ratifica allo statuto. In questo caso, ogni procedimento verrebbe sospeso. Inutile dire che, trascorsi sette anni, molte prove sarebbero distrutte, e quindi gran parte del lavoro degli inquirenti vanificato. E’ pur sempre vero che, rispetto a quanto è stato fino ad oggi, per la prima volta esisterebbe un organismo internazionale pronto ad accogliere questo tipo di denuncia, e che la nazione che si sottrae alle indagini, come nel caso precedente, potrebbe non uscirne a testa alta.

Per continuare il nostro esempio, mettiamo che la nazione sotto accusa – in realtà si tratterà di uno o più suoi cittadini, civili o militari – non si sottragga al lavoro degli inquirenti. Ma anche allora, la Corte non potrà esercitare una “giurisdizione automatica”, ovvero avviare le indagini autonomamente. Per procedere, occorrerà – e non solo per i crimini di guerra ma anche per i crimini contro l’umanità e il genocidio – l’autorizzazione dello Stato nel quale è stato commesso il reato, oppure di quello a cui appartiene l’indiziato. Questa formula, che secondo alcune organizzazioni umanitarie è una vera e propria “palla al piede” all’autonomia della Corte, ha in effetti vinto di fronte a proposte ancora più restrittive, come la richiesta di un “consenso multiplo” da parte di più Stati. Lo stesso vale per un’altra condizione inserita nello statuto, considerata come un grosso limite al potere della Corte: il Consiglio di sicurezza dell’Onu avrà la facoltà di bloccare i lavori del tribunale per 12 mesi, rinnovabili. Ma ogni decisione in tal senso potrà essere presa solo all’unanimità.

In definitiva, che questa non sia la Corte assolutamente forte e indipendente che auspicava chi ha lavorato per anni alla sua creazione, è un dato di fatto. Un dato di fatto altrettanto concreto è che 120 Stati del mondo, su 160 che hanno lavorato insieme, hanno voluto che il tribunale per i diritti umani nascesse, e lo hanno fatto nascere, nonostante molti di loro lo avrebbero voluto un po’ diverso. Non si può negare che si tratta di un evento di portata storica e, una volta tanto, nel segno della giustizia.

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