La guerra dei profughi

Sono più di 620.000, in fuga dal Kosovo. In poco più di un anno, un fiume di profughi albanesi ha oltrepassato le frontiere verso l’Albania, la Macedonia, il Montenegro, la Turchia. Un terzo del quale nell’arco di poche settimane. Un esodo che, per intensità, non ha precedenti in Europa, a meno di non risalire alla seconda Guerra mondiale.

La guerra fra la Nato (http://www.nato.int) e la Serbia di Milosevic, e ancor prima la repressione del presidente jugoslavo nei confronti della provincia “ribelle”, hanno avuto l’effetto di una bomba. Una deflagrazione che ha trasformato il Kosovo in terra bruciata, una terra di fantasmi. E ha innescato una lunga marcia di essere umani a capo chino, aggrappati alle poche masserizie che sono riusciti a portare via, in viaggio verso un luogo dove non rischiano di essere torturati dalle forze speciali serbe o di venire uccisi dalle bombe.

Difficile valutare le conseguenze di questa repentina e forzata migrazione umana. Nell’immediato ci sono i disagi, la fame e il diffondersi delle malattie nei campi profughi, anch’essi precari, come dimostra la recente evacuazione del campo di Blace, in Macedonia. Più a medio termine, il rischio di destabilizzare economicamente e politicamente i paesi d’accoglienza, molti dei quali, come il Montenegro e la stessa Macedonia, si trovano già in un equilibrio molto precario.

“Bisogna dire innanzitutto che si tratta di un esodo anomalo, non programmabile e soprattutto non prevedibile”, premette Lionello Boscardi, funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur, http://www.unhcr.ch), che Galileo ha intervistato. “Le cifre dei profughi che si spostano all’interno dei Balcani dall’inizio dello scorso anno, e poi in seguito all’intervento della Nato del 24 marzo scorso, sono in continua evoluzione. La gente continua a scappare, e la guerra continua. Potenzialmente, potremmo avere ancora un milione di persone in fuga”.

Le corrispondenze dal posto raccontano di violenze, di bambini e vecchi uccisi dal freddo, del rischio altissimo di epidemie che incombe nei campi profughi, di tonnellate di aiuti umanitari fatti sparire da chi sul luogo ha il compito distribuirli, e presto, a questa massa di disperati. E persino di operatori umanitari cui è stata chiesta una tangente per poter dare il loro contributo di volontari. Un girone infernale nel quale risulta difficile muoversi anche alle organizzazioni umanitarie. “Fare fronte a questa situazione è un compito difficilissimo”, riconosce Boscardi. “Qualsiasi intervento da parte delle strutture internazionali deve tenere conto del fatto che, come dicevo, siamo in piena guerra, e quindi non interveniamo su un fatto compiuto ma su una realtà in atto. Del resto, al giorno d’oggi le guerre si combattono sulla pelle dei civili, e i nuovi fronti sono le case e i villaggi della povera gente. E poi, ovviamente, le nostre possibilità di azione sono circoscritte solo alle zone dove abbiamo libero accesso: nessuno può sapere cosa succede oltre il confine del Kosovo, e abbiamo recentemente assistito a evacuazioni di profughi dal confine in Macedonia fatte con la forza e senza alcun preavviso. Anche se l’Acnur insiste sul concetto che tutte le cosiddette evacuazioni temporanee non debbano mai essere fatte contro la volontà dei profughi”.

Purtroppo questa tragedia umanitaria sembra essere soltanto agli inizi. Certamente continuerà anche quando – si spera molto presto – la parola sarà passata dalle bombe e i rastrellamenti ai summit diplomatici. “Anche nell’ipotesi più rosea, se si arrivasse improvvisamente a un accordo e la guerra finisse domani”, spiega Boscardi, “prima che si riesca a far rientrare a casa i profughi e ad assicurare loro una situazione anche di poco superiore alla pura sopravvivenza, passerebbero dei mesi. Quello che stiamo tentando di fare per il momento è di mantenere un equilibrio tra le esigenze dei rifugiati che premono alle frontiere e arrivano bisognosi di tutto e quelle dei paesi confinanti che sono poveri e assolutamente inadeguati a fronteggiare la situazione. E’ importante che chi fugge dalla propria terra possa restare vicino a casa per poter rientrare appena la situazione lo consentirà. Noi dobbiamo aiutare e sostenere le nazioni confinanti con il Kosovo che sopportano il carico dell’ospitalità. In ambito europeo si è parlato di compensare economicamente nazioni ben più ricche dell’Albania o della Macedonia che avessero accolto dei rifugiati. E’ ovvio che questo vale tanto più per questi paesi, che non ce la potranno mai fare da soli”.

A complicare la sorte dei rifugiati e le quelle dei paesi ospitanti si aggiungono poi i problemi collegati ai delicati equilibri politici dei Balcani. Per esempio, nessuno può dire con certezza che fine abbiano fatto le migliaia di profughi costretti recentemente a rientrare in Kosovo dall’Albania e dalla Macedonia (dove erano stati deportati in treni piombati, come ai tempi dell’Olocausto). E, soprattutto, chi lo abbia deciso. Si rincorrono voci di campi di concentramento nei dintorni di Pristina (che prima la guerra contava 200 mila abitanti) ridotta a città-fantasma. E c’è anche chi teme un colpo di stato in Montenegro – dove sono arrivati oltre 30 mila profughi – da parte della Serbia: il presidente montenegrino Milo Djukanovic, infatti, ha manifestato più volte il suo dissenso dalle iniziative del presidente jugoslavo Milosevic.

Per tutti questi motivi, “nel breve periodo” ha riconosciuto l’Acnur “sarebbe necessario offrire ai rifugiati una sicurezza temporanea in paesi al di fuori della regione”. Anche se, come ha ribadito nei giorni scorsi l’alto commissario per i rifugiati, la singora Sadako Ogata, per tutte le persone che hanno lasciato il Kosovo la “soluzione ultima è quella tornare a casa’’. Facendo però intendere che ciò potrà avvenire solo quando il conflitto sarà cessato e, naturalmente, con una protezione da parte di una forza militare internazionale. Intanto la guerra continua.

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