Occhi aperti su Davos

    Un summit per pochi eletti, un cenacolo di menti eccellenti che si riuniscono per parlare dei destini del mondo. Chiusi in un palazzo di Davos, in Svizzera, circa due mila persone fra capi di stato, illustri politici, accademici di chiara fama, imprenditori ed economisti si incontrano da 30 anni a questa parte ogni gennaio per il World Economic Forum (http://www.weforum.org). Ma l’appuntamento del 2000 è stato diverso. “Già l’anno scorso serpeggiava una certa inquietudine”, afferma Emilio Gabaglio, segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati (http://www.etuc.org), presente al Forum. Dopo il fallimento degli accordi multilaterali sugli investimenti (Multilateral Agreement on Investements – Mai) e del Millennium Round del Wto a Seattle, anche il vertice di Davos si è dovuto arrendere all’evidenza di un nuovo stato di cose. “Nel dibattito sulla globalizzazione mondiale c’è un prima e un dopo Seattle”, continua Gabaglio. E gli organizzatori del Forum hanno capito che non si possono discutere i destini del mondo chiusi in una torre d’avorio, senza che l’opinione pubblica non solo voglia dare un’occhiata ma voglia anche prender parola. Nel fitto programma – tre sessioni parallele dalle 7.10 del mattino fino a notte inoltrata – sono quindi apparsi temi come biotecnologie, privatizzazioni, accordi commerciali e a discuterne sono stati invitati alcuni rappresentanti di organizzazioni non governative (Ong). Non abbastanza, evidentemente. Gli altri, i più, sono rimasti di fuori a protestare. Proprio come poche settimane fa.

    E così anche a Davos si è respirata l’aria di Seattle. Certo non ci sono stati episodi di guerriglia urbana come era avvenuto nello stato di Washington, ma i contestatori si sono fatti comunque sentire. Al di là degli episodi di piazza, 150 organizzazioni non governative internazionali (tra le italiane anche la Rete di Lilliput – http://lilliput.homepage.com) hanno realizzato “The Public Eye on Davos”, un progetto di attività parallele al meeting mondiale che si sono tenute nella stessa cittadina svizzera. Grazie alle due associazioni promotrici – la Berne Declaration (http://www.evb.ch) e la Friends of the Earth/Us and the Globalization Challenge Iniziative (http://www.foe.org/) – si sono svolti seminari alternativi a quelli “chiusi” del Wef ai quali hanno partecipato rappresentati delle Ong di tutto il mondo. Davos, secondo loro, lungi dall’aver portato un “nuovo inizio” (questo il titolo dell’incontro di quest’anno), ha proposto solo vecchie ricette, inadeguate al nuovo clima mondiale creatosi dopo Seattle. La critica principale è proprio quella di poca trasparenza e partecipazione al processo decisionale.

    “La protesta della società civile organizzata ha ottenuto che la comunità economica e politica riconoscesse le organizzazioni come controparti”, spiega Emilio Gabaglio. Così all’incontro dedicato ai rapporti fra Ong e business sono stati invitati Thilo Bode, direttore internazionale di Greenpeace (http://www.greenpeace.org), Pierre Sané, segretario generale di Amnesty International (http://www.amnesty.org/), insieme a Mike Moore, vice direttore del Wto (http://www.wto.org) e ai rappresentanti delle multinazionali più minacciate dalle proteste di piazza, come la Monsanto. Un’altra voce fuori dal coro è stata quella di Vandana Shiva, direttore della Research Foundation for Science Technology and Naturale Resources Policy in India, intervenuta nel seminario sul futuro delle biotecnologie. Accanto a lei sedevano rappresentanti della Food and Drug Amministration e del Progetto Genoma Umano, impegnati a delineare i contorni della G-Revolution, la rivoluzione genetica prossima ventura. Uno spazio limitato, servito però a ribadire che gli strumenti messi a disposizione dalla ricerca genetica se per alcuni sono fonte di ricchezza per altri rappresentano l’ennesimo tentativo di sfruttamento.

    La società civile organizzata non può ancora cantare vittoria, ma certo la proteste di piazza hanno sollevato diversi problemi. Tanto che anche Bill Clinton nel suo discorso a Davos ha fatto riferimento agli “altri interessi” – quelli dei più deboli -, alle norme sociali di protezione del lavoro e dell’ambiente. Dimostrando così che anche i grandi dell’economia sembrano aver capito che “la globalizzazione deve essere un vantaggio per tutti, sanare le vecchie ineguaglianze anziché crearne delle nuove, altrimenti il sistema non può durare”, continua Gabaglio. “E l’opinione pubblica ha dimostrato di stare con gli occhi ben aperti e di volere delle regole”. Il dialogo sembra essere avviato. Tanto che gli organizzatori di Davos hanno già annunciato che il prossimo anno gli inviti saranno più estesi.

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