Caas, ecco il cloud condiviso

Nel mondo tra le nuvole l’aria sta cambiando. Quando si pensa al cloud computing vengono subito in mente Dropbox, iCloud o i server di Amazon: tutti servizi privati sui quali gli utenti fanno affidamento ogni giorno per condividere file attraverso Internet. Tuttavia, una rete di computer indipendenti può fornire prestazioni simili senza il bisogno di fare affidamento su tecnologie proprietarie. Si chiama Cooperation as a Service (CaaS) e viene presentata in un articolo pubblicato sul Journal of Web and Grid Services

Dietro all’idea di un cloud condiviso ci sono Hajar Mousannif, informatico della Cadi Ayyad University in Marocco e altri due docenti della Johannes Kepler University in Austria. Il CaaS consisterebbe in una rete di computer collegati a Internet che condividono piattaforme e servizi a costo zero. Una nuvola più piccola rispetto a quelle delle big company ma dotata di migliori prestazioni. Dopotutto, come sostiene anche The Verge, i servizi privati come iCloud spesso si rivelano molto lenti o costellati di bug che ne minano l’efficienza.

Queste mancanze tecniche diventano un serio problema quando a usufruire del cloud sono scienziati o centri di ricerca impegnati ad analizzare grandi quantità di informazioni. “I clienti del cloud computing pagano solo per la quantità di risorse che consumano (archiviazione dati, potenza di calcolo, ecc)”, hanno detto i ricercatori, “ma la vera domanda è: perché pagare quando possono semplicemente cooperare tra loro per avere i servizi di cui hanno bisogno?”.

A pensarci bene, è una provocazione che va ben oltre la contrapposizione tra pubblico e privato. Infatti, verrebbe quasi spontaneo chiedersi se non sia più giusto condividere i dati scientifici su piattaforme dotate di accesso libero, come Open Science Data Cloud. Si tratta di un servizio che mette a disposizione server aperti i cui dati possono essere condivisi. È gestito dall’ente no profit Open Cloud Consortium (Occ) e ospita già database scientifici di rilievo come modENCODE e Ncbi

Presto, gli scienziati europei dovranno scegliere con cura le proprie strategie in materia di condivisione dei dati. Già nel 2012 Neelie Kroes, vice presidente della Commissione europea, aveva posto l’accento sulla necessità di incentivare gli open data nella scienza. Tant’è che lo scorso gennaio il Comitato economico e sociale europeo (Cese) ha espresso parere favorevole in merito a un migliore accesso online alle informazioni scientifiche.

Tuttavia, maggiore accessibilità ai dati non significa apertura totale di ogni database della Pa. Come puntualizza il Cese, ci sono alcuni casi in cui è opportuno tutelare la privacy dei cittadini o cautelarsi sulla diffusione incontrollata di dati chiave per la sicurezza pubblica. Può succedere a tutti di condividere informazioni riservate su piattaforme poco sicure (vedi Galileo: Dati sanitari online? Non sono ancora sicuri), ma esporre grandi serie di dati preliminari è ben diverso. Una cattiva interpretazione di risultati parziali potrebbe sortire effetti inattesi. E a volte addirittura sgradevoli.

Riferimenti: Journal of Web and Grid Services doi:10.1504/IJWGS.2013.052854

Credits immagine: Stock in Customs / Flickr

Lorenzo Mannella

Si occupa di scienza, internet e innovazione. Laureato in Biotecnologie presso l'Università di Pisa, ha frequentato il master SGP in comunicazione scientifica presso Sapienza Università di Roma. Collabora con Galileo dal 2011. Scrive per Wired, Sapere e L'Espresso.

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