Categorie: Salute

Fulani, il popolo che batte la malaria

Quaranta chilometri a nord-est di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, vive una popolazione dalla pelle bruna, il naso sottile e i capelli lisci. Sono i Fulani, pastori nomadi di probabile origine caucasoide, che dividono la regione con i Mossi e i Rimaibé, due etnie negroidi e dalle tradizioni agricole, arrivate dal Sudan. In una regione dove la malaria è un pericolo con cui fare i conti tutti i giorni, i Fulani hanno sviluppato una singolare caratteristica: la loro risposta immunitaria al Plasmodium falciparum, il parassita trasmesso dalle zanzare eresponsabile dell’infezione, è straordinariamente più alta di quella di Mossi e Rimaibé. I Fulani, insomma, sono resistenti alla malaria. A scoprirlo è stato David Modiano, malariologo all’Università di Camerino e all’Istituto di parassitologia della “Sapienza”di Roma. Galileo lo ha intervistato.

Dottor Modiano, in cosa consiste la sua ricerca?

“Il nostro studio comparativo aveva l’obiettivo di valutare la suscettibilità alla malaria in gruppi etnici simpatrici, cioè che abitano nella stessa regione. Il progetto ha avuto inizio nell’ottobre 1993, in due villaggi a pochi chilometri dalla città di Ziniaré. In questa regione la trasmissione della malaria è altissima: a provocarla è soprattutto l’Anopheles gambiae, insieme all’Anopheles arabiensis e all’Anopheles funestus. Nel primo villaggio esaminato, Barkoundouba, vivono da più di trent’anni circa 600 tra Fulani e Rimaibé, mentre a Barkoumbilen, distante quattro chilometri dal primo insediamento, si dividono lo spazio 1300 Rimaibé e Mossi. Le tre etnie sono differenti sotto molti aspetti: alcuni studi indicano che Mossi e Rimaibé sono geneticamente più vicini di quanto non lo siano rispetto ai Fulani. Anticamente, però, i Rimaibé sono stati schiavi dei Fulani, dai quali hanno assimilato alcune tradizioni: le loro abitudini alimentari, per esempio, sono molto simili, perché entrambe le etnie hanno una dieta molto proteica. Insomma, era il luogo ideale per un’indagine comparativa. Che, voglio ricordarlo, è stata svolta grazie al progetto di cooperazione nato nel 1984 tra il ministero degli Esteri italiano e il Centre National de Lutte contre le Paludisme del ministero della Sanità del Burkina Faso”.

Qual è stato il primo passo delle vostre ricerche?

“Si trattava innanzitutto di verificare che gli individui delle tre popolazioni fossero esposti agli stessi livelli di infezione, cioè che il numero di punture infettanti ogni giorno su un dato campione risultasse uguale. Naturalmente si trattava di escludere i fattori culturali che avrebberomodificato le “condizioni di partenza”, come la tipologia delleabitazioni, la disponibilità di tende impregnate di insetticidao l’uso di farmaci. Una volta accertato che l’esposizione all’infezioneera identica, abbiamo calcolato il cosiddetto indice plasmodico, cioèla frequenza di individui che presentavano il plasmodio nel sangue periferico,nelle tre popolazioni. E ci siamo accorti di una cosa straordinaria. Trai Fulani, la percentuale di individui risultati sempre negativi, cioèmai infettati nonostante l’esposizione all’agente patogeno, era del 36%.Tra i Mossi e i Rimaibé, il numero di individui mai infettati toccavaappena l’1%. E’ la prima volta che si ha notizia di una cosa del genere”.

Eppure è noto che malattie come la talassemia o l’anemia falciformeproteggono, se così si può dire, dalla malaria…

“Ma quello che accade tra i Fulani è di natura diversa.L’anemia falciforme impedisce al parassita di svilupparsi nei globuli rossi,mentre le difese dei Fulani hanno un’origine immunitaria, e riducono addiritturale probabilità di infettarsi. Lo dimostra un altro studio estesoche abbiamo condotto nel 1995 per misurare l’incidenza di casi clinicidi malaria nelle tre popolazioni. La domanda, insomma, era la seguente:alla diversa suscettibilità ai parassiti, corrispondono delle differenzeanche sul piano della morbosità? Ebbene, i Mossi e i Rimaibépresentano una probabilità da tre a otto volte maggiore di ammalarsidi malaria rispetto ai Fulani, a seconda delle classi di densitàdi parassiti nel sangue che si vogliano esaminare. Questo significa chea parità di esposizione al parassita, i Fulani mostrano una rispostaimmunitaria decisamente più alta: la percentuale di individui conanticorpi nella classe di età tra 0 e 5 anni, quella dove in generesi riscontrano i valori più bassi, è pari al 70%, mentretra i Mossi adulti non supera il 50%. E’ insomma la prima volta che siipotizza un meccanismo di resistenza regolato su base anticorpale”.

Siete stati i primi a scoprire queste caratteristiche tra i Fulani?

“Diciamo che siamo stati i primi a distinguere i Rimaibédai Fulani. Uno studio simile effettuato qualche anno fa da ricercatoriinglesi, non aveva tenuto conto del fatto che si trattava di popolazionidistinte, e aveva considerato come Fulani un gruppo di individui compostosia da Fulani che da Rimaibé. Questa percentuale di Rimaibé,che tra l’altro era superiore a quella di Fulani, abbassava in un certosenso la soglia di “eccezionalità” dei risultati, cheerano sì interessanti, ma non quanto i nostri”.

Quali conclusioni si possono trarre dalla vostra ricerca?

“Il risultato è significativo per molti motivi. In primoluogo, perché portare avanti queste indagini può essere importantenello sviluppo di un vaccino, che com’è noto ancora non esiste,anche se i risultati degli studi condotti al Walter Reed Army Institutesono promettenti. In secondo luogo, perché dimostra l’importanzadel sistema immunitario in rapporto ad altre strategie di controllo dell’infezione.Il nostro prossimo passo sarà quello di studiare le diversitàgenetiche tra le popolazioni, per vedere se esistano differenze nei geniregolatori della risposta immunitaria”.

Insomma, la strada principale per la sconfitta della malaria passa peril vaccino?

“Oggi molta attenzione si concentra sulle tende impregnate diinsetticida, che attualmente sono una delle più diffuse strategiedi difesa dalla zanzara, e intorno alla quale girano interessi miliardari.Una nostra ricerca mostra però che l’impatto delle tende impregnatesulla morbilità e morbosità è altissimo – perchériduce il numero di punture infettanti – ma solo in determinate zone, esoprattutto, solo su tempi brevi. Il rischio è infatti che il sistemaimmunitario “settato” su un certo livello di esposizione all’infezione,si regoli sul nuovo standard, più basso. Così, dopo qualchetempo i livelli di mortalità tornano ai livelli precedenti. Eccoperché è importante puntare sul vaccino”.

Elisa Manacorda

Giornalista, è direttrice di Galileo, che ha fondato nel 1996 con altri giornalisti e ricercatori. Scrive di scienza e tecnologia per le principali testate italiane. E’ docente al Master SGP della Sapienza Università di Roma, collabora con il Master in Comunicazione della Scienza dell'Università di Ferrara. Con Letizia Gabaglio è autrice di "Il Fattore X" sulla medicina di genere.

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