Salute

Covid-19, cosa sappiamo sulla variante indiana

In India Covid torna a galoppare. Dopo mesi di tregua, che avevano fatto sperare alla più popolosa nazione del globo di aver sconfitto definitivamente l’epidemia, i casi giornalieri sono tornati a crescere velocemente, arrivando alla cifra record di 353mila nuovi contagi registrati il 25 aprile. Per evitare fraintendimenti già visti, è bene mettere le cifre in prospettiva: il record indiano è puramente astratto, perché commisurando l’incidenza della malattia a una popolazione che supera ampiamente il miliardo di abitanti, i numeri sono in linea con quelli visti in tante altre nazioni del mondo, e molto simili a quelli che osserviamo anche adesso nel nostro paese e in altre aree dell’Ue. La crescita dei nuovi casi è comunque molto rapida, e molti esperti stanno cercando di capire cosa spinga il virus a questa nuova, folle, corsa nel subcontinente indiano. L’indiziato numero uno, come sempre in questi ultimi mesi, è una nuova variante virale di Sars-Cov-2, identificata con la sigla B.1.617, che potrebbe rivelarsi più infettiva o magari più resistente alle vaccinazioni e all’immunità naturale di chi ha già sconfitto in precedenza la malattia. Ma come vedremo, per ora si tratta unicamente di ipotesi.

Prima di parlare di varianti, però, è il caso di fare qualche calcolo per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. In passato si è spesso fatta confusione tra numeri assoluti e incidenza nel corso di questa pandemia. E a leggere qualche titolo di giornale degli ultimi giorni, il rischio è di fare lo stesso anche con questa nuova ondata pandemica in India. Se è vero infatti che i 350mila e più nuovi casi registrati in India sono il numero più alto mai raggiunto da Covid-19 in una singola nazione (il record precedente apparteneva agli Stati Uniti, con 300mila nuovi casi segnalati lo scorso 8 gennaio), è altrettanto vero che il concetto di nazione non aiuta a valutare la reale incidenza di una malattia: in India abitano quasi un 1,4 miliardi di persone, ovvero quasi quattro volte i cittadini dell’intera Unione Europea, e quasi cinque volte quelli Usa.

Rapportando l’incidenza dell’epidemia indiana alla popolazione del nostro paese, il picco di nuovi casi del 25 aprile supera di poco (appena duemila casi) i 13mila e rotti contagi segnalati in Italia alla stessa data. E se (il caso non voglia) l’epidemia indiana raggiungerà i picchi visti a novembre dalle nostre parti, dobbiamo essere pronti a vedere numeri da capogiro, che supereranno i 600mila nuovi casi al giorno. Sgombrato il campo dalle questi numeriche, la recrudescenza epidemica indiana desta comunque molte preoccupazioni tra gli esperti, sia per l’indubbia crisi umanitaria, sociale e sanitaria che potremmo trovarci di fronte se l’epidemia raggiungesse i picchi di letalità e diffusione visti altrove, con un bacino di oltre un miliardo di potenziali vittime. Sia perché il paese sembrava aver superato il peggio, e diverse ricerche facevano immaginare che una proporzione molto elevata della popolazione indiana avesse già incontrato il virus (fino al 50% in alcune aree urbane del paese), e sarebbe quindi dovuta risultare protetta da nuove infezioni.


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È per questo che in questi giorni si è tornati a parlare della cosiddetta variante indiana, conosciuta con la sigla B.1.617, identificata nella seconda parte del 2020 e divenuta dominante in zone come lo Maharashtra, dove in effetti i nuovi casi di Covid-19 crescono a ritmo estremamente elevato, con 67mila nuovi contagi registrati lo scorso 24 aprile, per una popolazione di circa 114 milioni di abitanti. Per ora, la variante non è ancora stata inserita tra quelle riconosciute come variant of concern, o varianti pericolose, da nessuna istituzione sanitaria, e non è stato riconosciuto il suo contributo all’accelerazione dell’epidemia indiana, principalmente per l’assenza di dati affidabili sulla sua effettiva prevalenza.

Detto questo, la nuova variante ha alcune caratteristiche che destano preoccupazione tra gli esperti. Presenta infatti una mutazione identificata come L452R, che interessa la proteina spike e potrebbe effettivamente rendere più infettivo il virus. E anche un’altra mutazione, identificata dalla sigla E484Q, che anche in questo caso riguarda la proteina spike e si ritiene potenzialmente in grado di rendere il virus meno suscettibile agli anticorpi sviluppati in seguito a una precedente infezione. Un particolare che potrebbe, almeno ipoteticamente, spiegare il fatto che l’epidemia sia tornata a farsi sentire nonostante i dati che indicavano un’alta proporzione di indiani già guariti dal virus e quindi potenzialmente immuni.

Attualmente si tratta unicamente di ipotesi, che richiederanno tempo per essere confermate o smentite dalla ricerca. Non resta dunque che attendere e osservare come evolverà l’epidemia indiana nelle prossime settimane, sperando che i numeri non la trasformino in un’ennesima catastrofe sanitaria.

Via: Wired.it

(Foto: BlenderTimer via Pixabay)

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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