Categorie: Società

Migrazione senza sviluppo

Non è una decisione da prendere a cuor leggero. Eppure 191 milioni di persone nel 2005 hanno scelto di lasciare il proprio paese d’origine e trasferirsi, temporaneamente o permanentemente, altrove. Sono i cosiddetti migranti internazionali, oggetto di studio di un recente rapporto delle Nazioni Unite che verrà discusso al Simposio internazionale su “Migrazione internazionale e sviluppo” che si terrà dal 28 al 30 giugno al Politecnico di Torino in preparazione del Dialogo di alto livello in programma al palazzo di vetro per il 14-15 settembre. Di loro sappiamo che un terzo vive in un paese in via di sviluppo e proviene da un altro paese in via di sviluppo, mentre un altro terzo vive in un paese sviluppato e proviene da un paese in via di sviluppo (il che vuol dire che i migranti dal “sud al sud” sono tanti quanti quelli dal “nord al nord”); che la metà sono donne, che il 34 per cento è stato accolto in Europa, il 23 per cento in America del Nord; il 28 per cento in Asia; che 5,3 milioni tra il 1990 e il 2005, grazie alle normative dei singoli paesi, hanno regolarizzato la loro posizione e che in più di 20 milioni possono vantare un’istruzione post-secondaria. Dati a parte, dal rapporto Onu emergono alcuni tratti distintivi dell’attuale fenomeno migratorio, come la difficoltà di stabilire distinzioni nette tra paesi di destinazione e paesi d’origine, i rapporti tra migrazione e globalizzazione, i benefici riscontrati ai due lati del processo migratorio. Abbiamo chiesto un commento a Umberto Melotti, professore di Sociologia politica all’Università La Sapienza di Roma.Kofi Annan ha dichiarato che “i vantaggi apportati dalla migrazione non sono compresi come dovrebbero” e l’intero rapporto dell’Onu è un invito a cogliere il lato positivo della medaglia. Come giudica questa linea di pensiero?“E’ una posizione troppo semplicistica e scientificamente scorretta, ma dalle Nazioni Unite non potevamo aspettarci altro. Un’organizzazione che al suo interno accoglie paesi come Filippine e Marocco il cui sostentamento è garantito per la maggior parte dai loro abitanti residenti all’estero, ha tutto l’interesse per affermare cose del genere. In realtà il quadro è molto più complesso e il rapporto tra costi e benefici non così scontato”.Analizziamo alcuni punti del rapporto, partendo dall’affermazione che è diventato impossibile distinguere paesi d’origine da paesi di partenza. E’ realmente così?“Anche qui l’Onu generalizza troppo. E’ vero che dagli anni Cinquanta il fenomeno è molto cambiato, comportando cambiamenti di status dei vari paesi. Per quattro secoli infatti, dalla scoperta dell’America al secondo dopoguerra, il flusso migratorio è andato dal centro del mondo, la vecchia Europa, alle periferie, America e Asia. La nuova fase invece è stata caratterizzata da un rovesciamento della direzione, dalle periferie al centro. Per cui si è verificato che alcuni paesi tipici di emigrazione siano diventati paesi di immigrazione. Ne è un esempio la stessa Italia, da cui escono 100.000 persone ogni anno che dal ‘73 ha cominciato ad accogliere immigrati. L’ Argentina, tipico paese di emigrazione, subisce oggi anche l’immigrazione da Bolivia e Paraguay. Tutto sommato però il flusso migratorio segue una direzione ben precisa: dai paesi poveri ai paesi ricchi”.Passiamo ai vantaggi economici tanto decantati dall’Onu. Si legge nel rapporto che gli immigrati svolgono lavori necessari che nessuno vuole più, che avviano proficue attività imprenditoriali, che sostengono i sistemi pensionistici e che aiutano con le rimesse l’economia dei paesi d’origine. Quanto c’è di vero?“L’utilità degli immigrati nell’economia del paese che li ospita è un comodo luogo comune dei governi per non ammettere la difficoltà di gestirne l’ingresso e l’accoglienza. Questi lavoratori hanno infatti un’utilissima funzione sociale, ma forniscono un ridotto apporto economico. Se infatti in una prima fase, dal ‘45 al ‘73, l’emigrazione era motivata da effettive esigenze economiche di sostegno all’industria, oggi solo il 50 per cento dei lavoratori stranieri regolari in Italia è impiegato in settori produttivi. Economicamente i costi di un immigrato superano di gran lunga i benefici. Bisogna quindi avere il coraggio di ammettere che le ragioni umanitarie prevalgono su quelle economiche nella scelta di accogliere gli immigrati. Per quanto riguarda le rimesse, è vero, ci sono alcuni paesi, come Capo Verde, che si alimentano con i guadagni dei residenti all’estero. Ma anche in questi casi bisogna considerare il danno causato dalla perdita di risorse umane. E, visto che i fattori di attrazione sono assai inferiori ai fattori di espulsione, l’Onu dovrebbe impegnarsi di più nella salvaguardia dei diritti umani nei paesi d’origine, spesso assoggettati a governi totalitari”.Nel rapporto Onu il termine globalizzazione ricorre varie volte. Che legame c’è con le migrazioni internazionali?“Il legame è stretto e i due fenomeni si sono alimentati vicendevolmente. A partire dagli anni Ottanta le nuove tecnologie di comunicazione, i progressi nei trasporti, la possibilità di trasferire denaro con sistemi rapidi, ha facilitato gli spostamenti da un paese all’altro. Del resto le stesse migrazioni hanno portato alla diffusione di lingue, in Italia se ne parlano oggi 150, costumi e tradizioni alimentari e uniformato le abitudini di vita in varie parti del mondo”. E’ un fenomeno irreversibile?“Non abbiamo la lungimiranza per poter usare questo termine. Sicuramente è un fenomeno di lunga durata che possiamo immaginare persisterà per almeno un secolo ancora”.

Giovanna Dall'Ongaro

Laureata in filosofia ha curato l’ufficio stampa dell'Ente Nazionale Protezione Animali e collabora come free lance con diverse testate, tra cui 50&Più (Confcommercio),L'Espresso, La Macchina del Tempo. Dal 2003 fa parte della redazione di Sapere.

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