Categorie: Società

Quei tesori ritrovati

Situato su un colle che domina una vasta pianura, il grande insediamento buddista di Tapa Sardar è uno dei tesori storico-artistici dell’Afghanistan. Qui, dove oggi è attestata una importante postazione militare, tra il III e il IX secolo dopo Cristo sorgeva un ricco santuario, con tanto di monastero, cappelle decorate e sculture sacre.

Testimonianze uniche che hanno rischiato di essere completamente cancellate dai conflitti che dagli anni Settanta martoriano il paese, se non fosse stato per la popolazione locale, che ha messo in salvo i reperti raccolti e restaurati dagli archeologi italiani in vent’anni di scavi. Sin dal 1957, infatti Tapa Sardar era stata meta degli studiosi dell’Istituto italiano per il medio ed estremo oriente (Ismeo oggi Isiao), fondato da Giuseppe Tucci e Giovanni Gentile. Dopo trent’anni, nel 2002, gli la Missione archeologica italiana è stata la prima istituzione culturale straniera a rientrare in Afghanistan, dedicandosi, con mille difficoltà, al restauro di importanti reperti fortunosamente scampati alle granate. Molti di questi oggetti, insieme ad altri rinvenuti in diverse località del paese e risalenti fino all’età del bronzo, sono esposti fino al 18 novembre prossimo nel Museo di Antichità di Torino, che ospita la mostra “Afganistan i tesori ritrovati”, nell’ambito della quale la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo e dal Ministero per i beni e le Attività Culturali ha organizzato lo scorso 24 ottobre una giornata di studi. Ad Anna Filigenzi responsabile scientifico della Missione archeologica italiana in Afghanistan dell’Isiao, abbiamo chiesto di riassumere i cinquant’anni di ricerche italiane, di parlarci della situazione attuale e dei progetti futuri.

Che situazione avete trovato al vostro rientro in Afghanistan cinque anni fa?

La maggior parte dei siti archeologici è stata severamente danneggiata dalla guerra, ma, inaspettatamente, quasi il novanta per cento dei reperti è stato recuperato. Si tratta di sculture buddiste in argilla cruda e di parti di decorazioni architettoniche in marmo o in stucco. La loro conservazione si deve in parte agli efficaci interventi di restauro fatti in precedenza e in parte alle contromisure prese dal popolo afgano che ha fatto di tutto per proteggerli dai bombardamenti. I danni maggiori sono invece dovuti al saccheggio metodico e ininterrotto dei reperti archeologici che vengono venduti in Occidente. Un mercato redditizio quanto quello della droga. Durante le prime indagini archeologiche condotte nel 2002 dalla Missione italiana nell’enorme sito di Kharwar ci siamo imbattuti in milioni di scavi clandestini, prova evidente dei furti perpetrati negli anni.

In passato quali sono stati gli obiettivi della Missione archeologica italiana e i metodi di lavoro adottati?

Le ricerche si concentrarono sin dai primi scavi del ’57 su due obiettivi: il sito buddista Tapa Sardar e le fasi islamiche medioevali della città di Ghazni, una delle più importanti capitali dell’Asia dell’XI-XII secolo ma all’epoca poco nota agli archeologi. Grazie a quei lavori si cominciò a ricostruire la memoria e l’identità storica del popolo afghano.
La maggior parte dei reperti rinvenuti a Tapa Sardar è realizzato in argilla cruda, materiale molto fragile per cui il protocollo prevede necessariamente interventi di restauro conservativo sul posto. Gli scavi di Ghazni portarono alla luce il sontuoso palazzo di Mas’ud costruito nel 1112 con un vasto repertorio decorativo.

Quali invece i progetti futuri?

Il sottosuolo afghano somiglia molto a quello italiano: qualunque luogo si scavi ci si può imbattere in preziose testimonianze del passato. Innanzitutto ci prefiggiamo di concludere i lavori iniziati prima del ‘70, a cominciare da Tapa Sardar dove speriamo di concludere presto le indagini per poi dedicarci alla pubblicazione scientifica del lavoro svolto. Inoltre, abbiamo in cantiere un progetto per la formazione di professionisti del luogo che permetta di rimettere in piedi in Afghanistan una rete di tutela e recupero dei beni culturali. La formazione deve coinvolgere tutti i soggetti della catena, dall’usciere del museo al restauratore, agli insegnanti che non si sono più potuti aggiornare. Anche l’Istituto centrale del restauro (Icr) si sta muovendo in questa direzione accogliendo studenti afgani per dei soggiorni di studio in Italia. Lo spirito di queste iniziative è quello di innescare un processo di autonomia che segni il definitivo riscatto dell’Afghanistan dalla dipendenza verso i paesi occidentali.

Per fare tutto ciò avrete bisogno di risorse economiche sostanziose. Come state messi?

Male. Alla ripresa delle attività il nostro budget oscillava tra i 70.000 e i 50.000 euro. Ora, da quando gli scavi di Ghazni sono stati chiusi perché il luogo non è considerato sicuro, abbiamo sì e no 13.000 euro, con cui riusciamo a mala pena a pagare i voli arerei. Siamo in attesa che il Ministero degli Esteri valuti il nostro progetto di formazione e poi speriamo di ripartire con qualche risorsa in più.

Giovanna Dall'Ongaro

Laureata in filosofia ha curato l’ufficio stampa dell'Ente Nazionale Protezione Animali e collabora come free lance con diverse testate, tra cui 50&Più (Confcommercio),L'Espresso, La Macchina del Tempo. Dal 2003 fa parte della redazione di Sapere.

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