Categorie: Salute

Studi clinici abbandonati: li salva Riat

È un modo di fare poco ortodosso, ma certe volte c’è proprio bisogno di una bella scossa. Succede anche per i dati degli studi clinici condotti dalla case farmaceutiche: spesso non sono pubblicati per intero e la loro esistenza viene alla luce solo in caso di contestazioni o ordini dei tribunali. Ecco perché un articolo apparso sulle pagine del British Medical Journal (Bmj) propone un sistema per divulgare informazioni chiuse nel cassetto senza l’intervento della giustizia. Si chiama Riat (Restoring Invisible and Abandoned Trials) e può funzionare proprio grazie alle segnalazioni degli scienziati.

L’idea è nata dalla mente di Peter Doshi, un giovane post doc presso la Johns Hopkins University di Baltimora. Il ricercatore è stato ispirato dal collega Swaroop Vedula, il quale ha seguito da vicino un caso legale su un farmaco della Pfizer commercializzato per usi non autorizzati. In quella occasione la casa farmaceutica si è difesa rendendo pubblici ben otto studi clinci tenuti chiusi nel cassetto fino a quel momento. La lampadina si è accesa proprio in quel momento.

“Mi ha letteralmente colpito”, ha detto Doshi, “perché mai avremmo dovuto considerarli ancora degli studi clinici non pubblicati? Perché allora non pubblicarli noi stessi?”. E così Riat ha preso forma, diventando una proposta concreta rivolta a tutti gli scienziati che vogliono collaborare in modo attivo alla diffusione dei dati che, per una ragione o per un’altra, non raggiungono la comunità scientifica.

Il modus operandi di Riat si divide in diverse fasi: prima di tutto un ricercatore deve avere conferma che una casa farmaceutica possieda dei dati non pubblicati o divulgati solo in maniera parziale o fuorviante. A quel punto, parte una segnalazione diretta all’azienda in cui le si fa notare che quelle informazioni andrebbero rese pubbliche. La pharma può fornire due tipi di risposte nell’arco di 30 giorni: o si impegna a diffondere gli studi clinici per contro proprio entro un anno, oppure chi ha fatto la segnalazione può rivolgersi a una rivista scientifica convenzionata e pubblicarli a proprio nome.

In pratica, Riat permetterebbe a qualsiasi scienziato in possesso di dati inediti altrui di divulgarli in caso le ditte farmaceutiche rifiutino di fare il primo passo. Una soluzione utile se in ballo ci sono informazioni legate a studi clinici abbandonati o bloccati in un vicolo cieco, ma spinosa quando si parla di ricerche di punta. “Alcune persone potrebbero pensare che pubblicare studi clinici a nome di ricercatori che non c’entrano nulla equivalga al furto di proprietà intellettuale“, ha aggiunto Doshi, “ma in realtà nessuno può rubare ciò che è già di pubblico dominio”.

La proposta di Doshi arriva come un fulmine durante una tempesta già annunciata. Secondo il ricercatore, il 50% degli studi clinici condotti dalle case farmaceutiche sono tenuti chiusi nel cassetto. E poi c’è il fatto che molte ricerche, soprattutto quelle sul cancro, non sono poi così attendibili come vogliono far credere di essere (vedi Galileo: Come verificare uno studio clinico in sei mosse). C’è bisogno di una scossa, e questa potrebbe essere quella giusta.

Riferimenti: Bmj doi: 10.1136/bmj.f2865

Credits immagine: Nestlé/Flickr

Lorenzo Mannella

Si occupa di scienza, internet e innovazione. Laureato in Biotecnologie presso l'Università di Pisa, ha frequentato il master SGP in comunicazione scientifica presso Sapienza Università di Roma. Collabora con Galileo dal 2011. Scrive per Wired, Sapere e L'Espresso.

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  • Proprio una bella mossa, complimenti!
    Tutti, anche i ricercatori nelle università, hanno dati nascosti nel cassetto che non pubblicano prodotti con fondi pubblici.
    Perché dovrebbero farlo le aziende farmaceutiche che investono del loro?
    Un'altra iniziativa che spingerà i privati a investire sempre meno nella ricerca.
    Bravo Doshi!

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