Categorie: Società

Tra i nuovi misteri di Gerico

Dopo quasi 50 anni i palestinesi tornano a scavare sui siti archeologici restituiti nel 1993 dopo gli accordi di Oslo, che stabiliscono la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. E lo fanno iniziando dalla “città più antica del mondo”: Gerico. Situata a ovest della valle del Giordano, Gerico è certamente il sito più bello, ma anche il più complesso, tra quelli tornati sotto il controllo dei palestinesi. La nuova stagione di scavi è opera di una missione congiunta tra il risorto Dipartimento delle Antichità di Palestina, coordinata dal direttore Hamdan Taha, e l’Università di Roma “La Sapienza”, coordinata da Paolo Matthiae: lo stesso archeologo che nel 1964 riportò alla luce un altro gioiello, la città di Ebla, in Siria. Dell’importanza dello scavo Galileo ha parlato con Nicolò Marchetti, uno dei direttori della missione archeologica a Gerico per la parte italiana.

Dottor Marchetti, ci racconta questa prima esperienza di scavo con gli archeologi palestinesi?

“Questi scavi sono importantissimi per il Dipartimento delle Antichità. E’ il primo progetto internazionale in Palestina. Ed è la prima volta che un palestinese scava su un proprio sito. La cosa eccezionale è che tutti questi esperti sono tornati dalla diaspora nel 1994, e con mezzi veramente limitati hanno costituito questo dipartimento, dove lavorano una decina di persone. Fino ad allora i palestinesi erano costretti a studiare e lavorare all’estero. Basti pensare a Hamdan Taha, direttore generale del dipartimento, che ha conseguito il dottorato di ricerca a Berlino. Oppure all’architetto in capo, che ha studiato in Italia. Questo ci ha messo in condizioni di lavorare quasi come se fossero colleghi europei”.

I palestinesi hanno deciso di iniziare la prima missione proprio a Gerico. Perché?

“Gerico è senz’altro il sito principale di tutta la valle del Giordano meridionale. E’ un’oasi famosa per la sorgente di Eliseo, citata ben 101 volte nella Bibbia come simbolo del Paradiso terrestre. Ha avuto un’occupazione umana antichissima. Infatti la prima società neolitica si stabilì a Gerico circa 10.000 anni prima di Cristo, e la città rimase popolata fino al 1500 avanti Cristo. In seguito il sito ha avuto una occupazione minore, ma fino a quella data Gerico è rimasta un centro importantissimo”.

Di questa lunga storia, quale periodo state esplorando?

“Stiamo indagando il periodo dell’ultima grande fase di occupazione della città: quello dell’età del bronzo, che va dal 3000 al 1550 avanti Cristo. Tra l’altro è la stessa fase di fioritura di Ebla. Le due città hanno avuto vicende parallele. Il fatto è che tutta l’archeologia siro-palestinese è chiamata così proprio per la grande unità che la caratterizza. I fenomeni economici e storici sono del tutto comuni. Gerico fu abbandonata nel 1550, quasi come Ebla, che lo fu nel 1600. Quindi scavare la Gerico dell’età del bronzo è per noi un’esperienza familiare, dato che siamo allievi dello scopritore di Ebla”.

Siete soddisfatti dei risultati della prima campagna?

“Abbiamo aperto tre aree di scavo principali, più una di salvataggio. In quella che abbiamo denominato area B abbiamo identificato un grande edificio risalente al III millennio. Forse è una caserma, ma è difficile esserne sicuri, perché per il momento abbiamo scavato solo due stanze. Una era adibita al focolare, e infatti vi abbiamo trovato pentole in ceramica schiacciate dal crollo dei mattoni. Probabilmente l’edificio fu distrutto da un violento incendio. Poi abbiamo ricostruito il perimetro della città tra il 2500 e il 2300 avanti Cristo, grazie all’identificazione di un tratto di mura lungo 15 metri. Poi ci ha sorpreso un altro muro. Risale al periodo del bronzo medio, tra il 2000 e il 1550 avanti Cristo, è fatto di mattoni, spesso cinque metri e, cosa mai trovata finora, è costruito sulla sommità di un terrapieno. A Gerico i terrapieni sono veri e propri giganti, alti fino a 18 metri. E’ sorprendente trovarci sopra un muro di questo tipo. Nell’area A, alla base dei terrapieni, abbiamo trovato un tratto di mura ciclopiche, con blocchi che raggiungono le due tonnellate. La scoperta più interessante è che questo muro tagliava un grande edificio all’esterno della città. Il fatto di aver trovato un edificio fuori dalle mura fa pensare che la città doveva essere più grande di quanto si fosse pensato finora. Nella prossima campagna proseguiremo nello scavo di quella che sospettiamo essere la caserma. Vogliamo scavare anche la necropoli: sappiamo dov’è, e che è ricchissima di reperti”.

A parte i risultati scientifici, qual è stato il valore culturale di questo primo scavo?

“Le missioni normalmente sono congiunte, nel senso che in un sito archeologico si trova, per esempio, una buca in cui lavorano i giordani e 20 buche in cui scavano gli americani. Alla fine dei lavori, in genere gli americani spiegano ai giordani cosa hanno trovato. Noi, invece, abbiamo sempre lavorato insieme, un palestinese e un italiano nella stessa buca. E’ stata un’esperienza che ci ha permesso di apprezzare il grande valore dei nostri colleghi. Certo, alcune differenze culturali ci sono, ma alla fine tutto ha funzionato. Gli archeologi palestinesi sentono molto la responsabilità dell’eccezionale patrimonio archeologico tornato sotto la loro tutela. Ma per loro è importante anche il confronto con gli israeliani, che sono di più e hanno a disposizione mezzi molto maggiori. Per questo il nostro progetto è anche quello di formare i giovani archeologi palestinesi. E sembra che lo scopo sia stato in parte raggiunto. Le faccio un esempio. Poco lontano dai nostri scavi, la gente del luogo ha scoperto casualmente una villa romana del periodo di Qumran. E sono avvenuti due fatti fondamentali. Il primo è stato che i locali, trovandola, sono venuti a chiamarci; e questo vuol dire che la nostra missione aveva sensibilizzato la popolazione sulla tutela dei reperti archeologici. Ma ancora più importante è il secondo: la villa è stata affidata proprio a un ragazzo che si era formato per un mese con noi, e ora è il responsabile di questo nuovo sito”.

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