L’altra faccia del neoliberismo

    Sono ancora settanta gli ostaggi rinchiusi dai Tupac Amaru peruviani nell’ambasciata giapponese di Lima in Perù. Quattro mesi di estenuanti trattative non lasciano intravedere ancora uno sbocco pacifico della vicenda. Anche perché il presidente Alberto Fujimori non vuole dare segni di debolezza cedendo alle richieste dei guerriglieri, in larga misura volte a modificare le durissime condizioni di vita dei prigionieri politici nel loro paese.Stando così le cose, è l’immagine stessa di un Perù finalmente uscito dall’instabilità politica e dall’arretratezza economica tipica dei paesi sudamericani ad essere messa in gioco. Una sfida che probabilmente il presidente peruviano ha già perduto, e con lui il modello che si è imposto in questi anni non soltanto in Perù, ma in altri paesi del continente. Perché una cosa è ormai certa: i successi riportati dal presidente nel controllo del tasso d’inflazione e del debito pubblico – su cui si è basata tutta la politica di questi anni – non hanno risolto le debolezze strutturali del paese. La stabilizzazione dell’economia non sarà sufficiente per far vincere al Perù la sfida della competizione globale, obiettivo prioritario delle scelte intraprese. Ma soprattutto, gli interventi realizzati hanno accentuato gli squilibri sociali già esistenti e hanno contribuito a distruggere la possibilità stessa di sopravvivenza di gran parte della popolazione nel proprio ambiente originario.Il Perù non è il solo paese a trovarsi in questa situazione. Condividono la stessa sorte tantissimi altri paesi dell’America latina e dell’Asia che adottano le politiche neoliberiste ispirate dal Fondo monetario internazionale (Fmi). Ma non è questo l’unico destino possibile per i paesi del Sud. A dar corpo alla speranza di uno sviluppo alternativo sono le esperienze riportatate da Patrizio Bianchi, presidente del comitato scientifico di Nomisma, e collaboratore, in qualità di esperto, del Banco interamericano di sviluppo (Bid). Il Bid è un organismo internazionale dei paesi latinoamericani che punta alla equilibrata valorizzazione delle risorse economiche locali nel rispetto dell’ambiente.”L’errore fondamentale del Perù e dei paesi che adottano politiche economiche simili”, sostiene Bianchi, “è di riferirsi a modelli asiatici come il Giappone, o meglio come Taiwan o Singapore. I governi di questi paesi ritengono che nell’epoca della globalizzazione non sia più possibile uno sviluppo per gradi e in tempi lunghi, così come è storicamente avvenuto per le economie di mercato in Europa e nel Nord America. Di conseguenza creano strutture fortemente aggressive, che si rivolgono subito al mercato internazionale”.Il modello è quello della “flexible rigidity”. Il modello di un paese che, fortemente coeso all’interno, si proietta tutto nella competizione all’esterno. Ma è un mito che non funziona, perché non tiene conto di contesti sociali che non reggono più. La forte accelerazione verso l’economia di mercato produce un enorme effetto di urbanizzazione, che è la negazione di ogni forma di uso equilibrato delle risorse e dell’ambiente.Le politiche economiche di questi paesi sono state fino ad ora sviluppate in accordo con il FMI, che ha una visione fondamentalmente macroeconomica dei problemi. Stabilizzare l’economia il tramite il controllo dell’inflazione e del debito pubblico sono gli unici obiettivi di questi interventi.Secondo Bianchi, invece, una volta conseguito l’obiettivo prioritario della stabilizzazione si dovrebbe dare un forte impulso alle capacità imprenditoriali locali. In questo modo sarebbe possibile incrementare il numero degli “attori sociali” e creare un mercato più articolato. “Molto spesso si è passati da un regime di monopolio di imprese di Stato a monopoli privati. Lo sviluppo di un tessuto imprenditoriale locale consentirebbe invece innanzitutto la sopravvivenza nei territori di origine di una parte significativa della popolazione, e, successivamente, l’avvio di circuiti di mercato in grado di autosostenersi.”E gli esempi di successi in questa direzione non mancano. E’ il caso della piccola città di Rafaela nello stato argentino di Santa Fè, dove c’era una tradizione di produzione di macchine per l’agricoltura locale. “La salvaguardia e lo sviluppo di questa capacità produttiva hanno consentito”, secondo l’esperto del Bid, “di rafforzare l’economia locale e di realizzare in breve tempo una produzione per i mercati limitrofi. Non solo, il sindaco ha puntato sullo sviluppo dell’istruzione tecnica, avviando uno scambio di studenti direttamente con il Land tedesco del BadenWuttenberg”.Un altro caso significativo è quello dello stato di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, dove il progressivo degrado ambientale aveva spinto gli abitanti di molti paesi a dirigersi verso Florianopolis, città capoluogo. Si era giunti al punto che i municipi della regione davano come unico sussidio alla popolazione un biglietto di sola andata per la città. Ora, con interventi sulle imprese rurali e artigiane l’esodo è stato arrestato. “Sono ancora esperienze isolate e in aree non totalmente degradate”, avverte Bianchi, “ma certamente indicative di possibili successi”.Nel Bid si sta cominciando anche a pensare a progetti che valorizzino le risorse naturali in senso ambientale. Fra le esperienze più significative vi sono certamente i progetti rivolti alle donne. La componente femminile della popolazione si è rivelata fondamentale negli interventi che garantiscono la sopravvivenza delle comunità locali, ma anche nelle piccole produzioni “indigene” per il mercato e nel turismo. Non si tratta soltanto dunque di favorire un “piccolo e bello” da contrapporre alla logica dei grandi progetti, ma della stessa possibilità di sopravvivenza di milioni di persone, in un rapporto di sviluppo equilibrato con l’ambiente e con le sue risorse.

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