A me gli occhi, sto bluffando: la simulazione animale

Tutto sommato, chiedersi se gli animali simulano è come chiedersi se gli animali pensano: entrambi gli interrogativi suggeriscono un paragone con noi esseri umani per quanto riguarda due attività altamente complesse. Ora, mentre non si hanno difficoltà ad immaginare che gli animali possano produrre una qualche forma di attività di ragionamento, più o meno elaborata in funzione della complessità della specie, bisogna ammettere che cercare nel mondo animale qualcosa di simile a ciò che intendiamo per simulazione può sembrare eccessivo.

Se infatti il pensiero, in sé e per sé, si può considerare una forma di comprensione della realtà fisica oggettiva alla portata anche di un animale non eccessivamente complesso – si pensi, ad esempio, all’abilità dei ratti nel risolvere dei labirinti – la simulazione implica qualche cosa in pi&ugrave. Simulare comporta infatti una certa discriminazione tra realtà e finzione ed una manipolazione finalizzata di quest’ultima. Facoltà che potrebbero sembrare oltre la portata dell’intelligenza animale, ma questo non è vero: gli animali, in certe circostanze simulano benissimo!

Ma cosa si intende esattamente per simulazione? Il Vocabolario Zingarelli della Lingua Italiana (1988) riporta come primo significato della parola simulare il “fingere, far parere che ci sia qualcosa che in realtà non c’è”, e come ulteriore definizione in senso tecnologico il “riprodurre qualcosa artificialmente in modo che sembri vero”. E’ subito evidente che simulare consiste nel comprendere e gestire la differenza tra la realtà ed una sua rappresentazione. Il comportamento animale talvolta assume effettivamente le caratteristiche della simulazione, precisamente quando un individuo si comporta in modo da trarre in inganno un conspecifico o un individuo di una specie diversa (per esempio un predatore).

In questo senso, in psicologia comparata e in etologia il termine più consueto è “inganno” (deception), che implica l’indurre in errore altri individui, volontariamente o involontariamente. Il punto nodale dell’interazione tra simulazione e inganno negli animali sta proprio nella produzione di informazioni non reali indirizzata ad un individuo affinché quest’ultimo fraintenda la realtà ed attui un comportamento di risposta inadeguato.

Posta in questi termini, la simulazione come inganno diventa un aspetto della comunicazione animale, che si può definire come un messaggio “disonesto” inviato da un emittente allo scopo di indurre un ricevente ad emettere a favore del primo un comportamento che, altrimenti, non avrebbe emesso.

Come vedremo tra poco, molte specie animali riescono a manipolare la percezione della realtà di altri individui, in modo che questi scambino la rappresentazione per la realtà e siano perciò indotti in errore. Ci si potrebbe chiedere quale livello di consapevolezza e intenzionalità sia indispensabile per prestazioni del genere ma, come vedremo, questi due concetti estremamente antropomorfici non sono indispensabili per analizzare la simulazione nel mondo animale.

Per semplificare, possiamo distinguere due forme di simulazione sviluppate nel corso dell’evoluzione: una prima forma, relativamente più semplice, consiste in rigidi adattamenti morfologici in una specie animale che o ne riducono la visibilità nel proprio ambiente, oppure ne falsano il riconoscimento da parte di un predatore. La rigidità di questa forma di simulazione consiste nell’impossibilità, da parte del simulatore, di fare alcunché di diverso da ciò che gli è consentito dal bagaglio genetico responsabile del suo aspetto morfologico.

La seconda forma invece, più sottile e intrigante, non necessita di nessun camuffamento percettivo e di nessuna specializzazione morfologica per ingannare il ricevente: l’informazione “disonesta” è tutta contenuta nella sequenza comportamentale con cui l’emittente comunica uno stato di cose diverso dalla realtà ma verosimile, in modo da ottenere dal ricevente una serie di comportamenti inadeguati al contesto. Evidentemente, la simulazione comportamentale richiede una serie ordinata ed organizzata comportamenti, che risulta dalla ricombinazione ad hoc di atti e posture che l’emittente produrrebbe in un contesto differente e per motivi differenti dal trarre in inganno il ricevente.

Simulazione morfologica: il mimetismo

Un esempio eclatante di simulazione morfologica è il mimetismo, ovvero la somiglianza per forme e colori con l’ambiente naturale oppure con altre specie mediante la quale certi animali, soprattutto insetti, riescono a non essere scoperti dai predatori. Ad esempio, le farfalle della specie Biston betularia possiedono una duplice colorazione criptica (una forma melanica ed una sale e pepe) che le rende indistinguibili dal sostrato su cui si posano, e cioè la corteccia di betulla.

Nei suoi studi sul melanismo industriale di B. betularia, H. Kettlewell (1955) ha dimostrato che questi insetti scelgono attivamente il sito dove posarsi, poiché la forma melanica predilige le betulle con corteccia iscurita dall’inquinamento ambientale, mentre la forma sale e pepe si mimetizza meglio tra i licheni sui tronchi di betulle non inquinati. Tuttavia se viene cambiata sperimentalmente l’efficacia della colorazione criptica della farfalla, ad esempio spostando una forma di B. betularia su sostrato tipico dell’altra e viceversa, la colorazione criptica perde la sua efficacia e gli uccelli insettivori localizzano facilmente le farfalle divenute evidenti.
Esperimenti di laboratorio condotti sulle ghiandaie americane (Cyanocitta cristata, Pietrewicz & Kamil, 1977) hanno dimostrato l’estrema difficoltà di questi uccelli nel localizzare farfalle criptiche quando gli insetti erano orientati in modo naturale rispetto al sostrato; ma se l’orientamento dell’insetto veniva cambiato, oppure se l’insetto era posto su uno sfondo non naturale, la probabilità di cattura da parte degli uccelli cresceva notevolmente.

Gli studiosi hanno descritto una forma speciale di mimetismo, che si caratterizza non per la scarsa visibilità di un individuo rispetto allo sfondo naturale in cui si muove ma, al contrario, per la somiglianza di una specie commestibile o non pericolosa con una altra specie, pericolosa o indigesta. In questo caso, detto di mimetismo “batesiano” dal nome del suo scopritore, il naturalista Henry Bates, un animale può ingannare un predatore mostrando visibilmente caratteri morfologici di una specie totalmente differente ma più pericolosa, così da dissuadere il predatore dall’attaccare.

Ad esempio, esiste un bruco (Leucorhampha ornatus) molto abile in questa simulazione il quale, quando viene disturbato da un uccello intenzionato a mangiarlo, gonfia l’addome assumendo una forma triangolare simile alla testa di un serpente dove, per giunta, due macchie sembrano occhi, e si agita colpendo l’uccello che lo ha disturbato (Wickler, 1968). L’effetto di questa simulazione è spesso quello di far fuggire il predatore come se si trovasse davanti ad un serpente vero!

Il parassitismo di cova è un altro esempio popolare di simulazione nel mondo animale. Tutti conosciamo l’abitudine della femmina di cuculo (Cuculus canorus) di deporre le uova nel nido di uccelli di altre specie (Wickler, 1968), generalmente di dimensioni inferiori, e diventa spontaneo chiedersi come faccia l’uccello parassitato a non accorgersi dell’intruso e a nutrirlo così come fosse un piccolo proprio. Ebbene, il piccolo parassita sopravvive innanzitutto perché è più precoce nell’uscire dall’uovo rispetto ai piccoli ospiti, e quindi riesce a spingere fuori dal nido le altre uova rimanendo così l’unico destinatario delle cure parentali dei genitori adottivi.

Ma, cosa più importante, il cuculo sfrutta a proprio vantaggio la risposta meccanica di nutrizione evocata nei genitori adottivi da una qualunque cosa che, in un nido, pigoli rumorosamente e spalanchi prontamente il becco non appena gli adulti rientrano da un viaggio di foraggiamento. Cioè, il giovane cuculo emette degli stimoli supernormali, ovvero segnali generici ma più cospicui ed intensi di quelli normalmente emessi dai figli legittimi della specie parassitata, che elicitano ipso facto l’attenta risposta di accudimento da parte dei genitori, i quali non mostrano di accorgersi minimamente della pur evidente differenza tra il giovane cuculo ed i piccoli propri.

Allo stesso modo, anche alcuni coleotteri (Atemeles pubicollis) depongono le uova in nidi di altre specie come, ad esempio, formicai di Formica polictena. Le giovani larve parassite non vengono individuate ed uccise dalle formiche F. polictena perché producono un segnale chimico (un feromone) simile a quello che elicita le cure parentali da parte delle formiche, le quali nutrono le larve di coleottero come fossero le proprie (Hîlldobler, 1971). Anche da adulti, i coleotteri A. pubicollis continuano a simulare il comportamento dei propri ospiti, imitando efficacemente il comportamento di richiesta del cibo che le formiche operaie attuano con le zampe anteriori.

Simulazione comportamentale: l’inganno

In questa categoria di simulazione, gli animali non ricorrono ad espedienti fisici per ingannare il sistema percettivo del ricevente, ma imitano il comportamento di un’altra specie oppure si comportano come se la realtà percepita dal ricevente fosse diversa da quella che è.

Ad esempio, in natura esistono diverse specie di lucciole che si distinguono, tra le altre cose, per il ritmo del lampeggiamento notturno con cui gli individui maschi e femmine di ciascuna specie si riconoscono per l’accoppiamento. Di solito il codice di segnalazione specie-specifico viene prodotto e riconosciuto soltanto dagli individui che appartengono a quella data specie. Tuttavia, esiste una di specie di lucciole, del genere Photuris, le cui femmine riescono a riprodurre correttamente il codice luminoso dei maschi di ben tre specie del genere Photinus: capita così che queste femmine lampeggino con il codice dei maschi delle specie Photinus in modo da avvicinarli e mangiarli (Lloyd, 1986). In altre parole, le femmine di Photuris attuano una duplice simulazione che consiste, da un lato, nell’applicare in un contesto predatorio un modulo comportamentale in sé finalizzato alla riproduzione e, dall’altro, nel fare ciò imitando il codice comunicativo di un’altra specie.

Un’altra serie di casi in cui è stata dimostrata l’esistenza di individui “segnalatori disonesti” è quella dei gruppi sociali di foraggiamento. Questi gruppi di animali, che possono essere composti anche di individui di specie diverse, delegano a qualche elemento del gruppo la funzione di avvistatore di predatori, cosicché questo individuo possa emettere segnali di allarme e indurre gli altri alla fuga. Tuttavia, in alcune specie, questi segnalatori si dimostrano un po’ troppo zelanti, e tendono ad emettere il richiamo di allarme anche in assenza di qualsiasi predatore. Perché fanno ciò? Probabilmente per assicurarsi qualche vantaggio alimentare. Ad esempio le averle, quando foraggiano in gruppo con altri uccelli, tendono più facilmente ad emettere un richiamo d’allarme rispetto a quando foraggiano da sole. Gli etologi (Munn, 1986) si spiegano questa tendenza alla simulazione come una strategia per procurarsi il cibo abbandonato dai concorrenti nella fuga, ed è comprensibile anche perché gli altri uccelli siano disposti a farsi ingannare dalle averle: ovviamente, nell’evitare i predatori, è molto più sicuro fuggire più spesso del necessario che trascurare un allarme che potrebbe essere fatale.

Esiste poi una serie di studi su una condotta tipica delle femmine di alcuni mammiferi definita pseudoestro, ovvero il riprodurre segnali comportamentali tipici dell’estro da parte di femmine già gravide, e quindi impossibilitate a concepire di nuovo. Lo pseudoestro si presenta, ad esempio, nelle femmine di entello dell’India (Presbytis entellus). In questa specie di primati esiste una ferrea gerarchia sociale, che consente soltanto al maschio dominante di accoppiarsi con le femmine del gruppo e quindi riprodursi. Perciò, quando il maschio alfa viene spodestato da un rivale, e se i suoi piccoli non hanno raggiunto la maturità, capita frequentemente che il nuovo maschio dominante uccida i figli dello sconfitto.

Probabilmente questo comportamento infanticida serve ad assicurare il massimo successo riproduttivo all’individuo dominante. In queste circostanze gli entelli femmina, pur essendo ai primi stadi della gravidanza, possono simulare lo stato di estro e sollecitare il nuovo dominante all’accoppiamento, sebbene non stiano ovulando e non possano perciò mettere al mondo figli del capobranco: è stata avanzata l’ipotesi che gli entelli femmina ingannino attivamente il partner allo scopo di fargli accettare un prole non sua e risparmiarla dal sacrificio (Hrdy, 1977).

Allo stesso modo, è stato osservato che quando una femmina gravida di arvicola terrestre (Arvicola terrestris) si sposta nel territorio di un maschio con cui non si è accoppiata, essa riprende un finto ciclo ovarico e si accoppia ancora con il secondo maschio. La femmina mette così al mondo dei piccoli che, ovviamente, non possono essere che del maschio precedente (Jeppsson, 1986). Quindi, in generale, le femmine di entello e di arvicola simulano le uniche informazioni che i maschi (di queste come di ogni altra specie) possono utilizzare per stabilire la paternità dei piccoli di cui dovranno occuparsi: appunto, informazioni comportamentali, poiché essi non dispongono di alcun metodo più diretto per controllare l’origine della propria prole.

Una recente serie di esperimenti (Ristau, 1991) è stata condotta sui pivieri americani (Charadrius melodus e C. semipalmatus) allo scopo di analizzare in dettaglio il grado di flessibilità (o di intelligenza?) raggiungibile dalla simulazione animale, in modo da evitare spiegazioni antropomorfistiche o strettamente parsimoniose ma riduttive. Queste specie di uccelli, durante la stagione della cova, mostrano un comportamento di distrazione dei predatori chiamato”simulazione di ferita” (“injury-feigning”): in pratica questi uccelli, quando un potenziale predatore si avvicina al nido, si gettano al suolo con le penne arruffate e le ali scomposte, pigolando rumorosamente e trascinandosi impacciati come se fossero feriti o malati. Questa scena di solito attrae l’attenzione dell’intruso, che comincia a seguire l’uccello allontanandosi cosé dal nido. Questo comportamento si è rivelato flessibile, graduale e contesto-dipendente e perciò particolarmente utile per uno studio controllato della simulazione negli animali. Vediamolo in dettaglio.

La “simulazione di ferita” può essere spiegata in tre modi:

(1) secondo un approccio etologico classico, la simulazione rappresenta uno schema fisso di azione (Fixed Action Pattern, FAP) in cui la situazione-stimolo (l’avvicinamento dell’intruso) scatena invariabilmente l’esibizione di inganno;

(2) secondo un’altra interpretazione, questo comportamento rappresenta una reazione aspecifica a situazioni pericolose e stressanti;

(3) infine è possibile che l’animale comprenda vari aspetti della situazione e si comporti di conseguenza. Carolyn Ristau (1991) ha proceduto alla verifica sperimentale di queste ipotesi alternative.

Un primo risultato di questo studio è che nel 98% dei casi il piviere riusciva effettivamente a condurre l’intruso (lo sperimentatore) lontano dal nido. Si vide che gli uccelli cambiavano posizione e modalità della simulazione in funzione del comportamento dell’intruso. Se per esempio questi non rivolgeva lo sguardo verso l’uccello, oppure non reagiva alla parata, l’animale vocalizzava pió rumorosamente e si trascinava a portata visiva dell’intruso. Già da questi dati, che confermano la flessibilità e la dipendenza dal contesto del “injury-feigning”, si possono escludere l’ipotesi della FAP e quella della reazione aspecifica allo stress. Inoltre, la Ristau dimostrò che gli uccelli discriminavano tra intrusi inoffensivi (mucche che pascolavano nei dintorni del nido) e intrusi pericolosi, esibendo più frequentemente il comportamento verso quegli intrusi che precedentemente si erano realmente rivelati pericolosi.

Questo studio dimostra che gli animali riescono a simulare una realtà falsa ma verosimile allo scopo di ingannare altri individui, e che questa abilità si basa su un’attenta percezione dei risultati della propria azione. E’ evidente che questi risultati non intendono invocare alcuna intenzionalità e/o consapevolezza: al contrario, è probabile che i pivieri non attribuiscano nessun pensiero intelligente agli intrusi, poiché non dimostrano di capire che il fatto di alternare movimenti normali alla simulazione di ferita (come essi fanno quando l’intruso non gli presta attenzione) potrebbe segnalare il trucco ad un osservatore attento ed “intenzionale”, e vanificare così la simulazione.

Un approccio evoluzionistico alla simulazione animale

Al termine di questa rassegna sintetica e per nulla esaustiva sulla simulazione negli animali, dobbiamo limitarci ad alcune considerazioni critiche. Innanzitutto possiamo fare delle ipotesi su quale sia il significato funzionale generale della simulazione, e come questa possa essersi evoluta in molte specie.

Dagli esempi fatti finora, dovrebbe esser evidente che l’individuo che simula ha un vantaggio, in termini di potenziale riproduttivo, rispetto all’individuo ingannato o al conspecifico che non inganna. Le farfalle criptiche che riescono ad evitare la cattura, le femmine di entello o le arvicole che ingannano i propri partner sulla loro paternità, oppure le averle che “gridano al lupo” ottengono, in ultima analisi, di aumentare le proprie probabilità di sopravvivere e/o di riprodursi, consentendo così la perpetuazione del proprio bagaglio genetico.

Questo tipo di ipotesi, che si definisce “adattamentista” perché attribuisce al comportamento animale una funzione di sopravvivenza, riesce anche a spiegare l’origine evolutiva della simulazione nella storia naturale di una specie: infatti, in un’ottica evoluzionistica, quegli individui ancestrali che, per una mutazione genetica casuale, esibivano i rudimenti di certi caratteri morfologici o comportamentali sufficienti per un’efficace simulazione, realizzavano un vantaggio riproduttivo rispetto agli individui sprovvisti di tali adattamenti. Tale vantaggio riproduttivo, a sua volta, perpetuerà il carattere nelle generazioni successive, consentendogli di evolversi. In altre parole, gli antenati delle farfalle B. betularia che casualmente possedevano una colorazione simile alla corteccia della betulla; oppure i progenitori di un’averla particolarmente incline ad emettere richiami d’allarme, e così via, potevano generare più facilmente prole e così aumentare la frequenza di quei geni, nel pool genico della specie, da cui dipendevano i caratteri morfologici o comportamentali vantaggiosi.

Ma non è tutto. Questi esempi di simulazione suggeriscono che qualunque sistema di comunicazione è flessibile, nel senso che consente certi gradi di libertà nella produzione e decodificazione dei segnali. Come si è detto, un sistema di comunicazione prevede un emittente, un segnale ed un ricevente. Fin qui il sistema autentico. Tuttavia abbiamo visto che possono esistere delle smagliature nel sistema, sia da parte dell’emittente (per esempio, la lucciola femmina del genere Photuris) che da parte del ricevente (il maschio di Photinus). Queste imperfezioni, che quando diventano “intenzionali” ci inducono a parlare di simulazione, rappresentano certamente un costo per il sistema di comunicazione, costo imposto dai segnalatori “disonesti”.

Ci si potrebbe chiedere allora perché la selezione naturale abbia consentito l’evoluzione di questi sistemi, visto che non sono a prova di contraffazione. La risposta può essere che, ancora in un’ottica adattamentista, la sopravvivenza di un tale sistema dipende dalla frequenza relativa dei segnalatori legittimi rispetto a quelli illegittimi. E cioè, per rimanere alle nostre lucciole, se il codice luminoso delle specie Photinus fosse davvero così aperto alla simulazione, la selezione naturale avrebbe dovuto favorire il diffondersi di quegli individui sprovvisti di o insensibili a questo sistema di identificazione del partner. In realtà, il sistema sopravvive perché non sempre le femmine Photuris riproducono il codice Photinus per mangiare i maschi di queste specie, così come questi ultimi non cadono invariabilmente vittime delle “femmes fatales”: spesso la simulazione non riesce perché il segnale non è correttamente riprodotto, oppure perché il ricevente non si avvicina alla femmina se non dopo una cauta ispezione.

Questa dinamica interspecifica, detta appunto “selezione dipendente dalla frequenza” mantiene la presenza degli individui segnalatori onesti e dei loro parassiti in un equilibrio vantaggioso per entrambi: ai segnalatori onesti conviene utilizzare quella forma di comunicazione per massimizzare il proprio vantaggio riproduttivo, mentre ai simulatori è possibile un certo grado di parassitismo che non porti allo squilibrio e all’estinzione del sistema comunicativo. Se questa ipotesi è vera, allora possiamo parlare di coevoluzione tra segnalatori onesti e simulatori, e di pressioni che questa coevoluzione potrebbe esercitare sullo sviluppo di sistemi di comunicazione sempre più complessi. Cioè la simulazione potrebbe addirittura avere una sua utilità evolutiva, poiché spingerebbe i segnalatori legittimi ad incrementare sempre più la complessità e la precisione del codice comunicativo per renderlo sempre meno aperto alle contraffazioni dei simulatori.

Bibliografia

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S.B. Hrdy, The Langurs of Abu, Harvard Press, Cambridge, MA., 1977

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H.B. Kettlewell, “Selection experiments on industrial melanism in the Lepidoptera”, Heredity, 9:323:343, 1955

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A.T. Pietrewicz, A.C. Kamil, “Visual detection of cryptic prey by blue jays (Cyanocitta cristata)” Science, 195:580-582,1977

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N. Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, XI Edizione, M. Dogliotti, L. Rosiello (a cura di), Zanichelli, Bologna 1988

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