Donne, cittadine di due mondi

Femminista, psicoanalista, tra le fondatrici dell’Associazione Donne e Scienza e del Centro culturale Virginia Woolf, Francesca Molfino ci ha lasciati l’8 aprile scorso. Per ricordarla, Galileo pubblica un suo articolo apparso su Sapere (n.2, 2007).

Esistono molte definizioni di potere, che riflettono diverse tradizioni storiche, ed esistono anche diverse discipline che hanno organizzato delle definizioni proprie. Nei molti dizionari, per esempio, leggiamo che il potere è «la facoltà di esercitare o rappresentare forza, potenza, energia, abilità, influenza…» segue una lunga serie di parole che comprende termini come «dominio», «autorità», «governo» giungendo sino a «forza militare». La lista riflette accuratamente l’idea che la maggior parte di noi ha sul potere. Probabilmente abbiamo legato il concetto alla capacità di aumentare la propria forza, o la propria autorità o la propria influenza, e anche di controllare e di limitare gli altri – cioè di esercitare il dominio ovvero dominare. Io farò riferimento a una delle speculazioni sul soggetto elaborata negli ultimi decenni per cui non si può più parlare di costruzione della soggettività senza pensare che è un concetto relazionale. Né è immaginabile una persona che non sia orientata da princìpi contrastanti, appartenenza e separazione, individualizzazione e socializzazione. Tale opposizione non è mai conciliabile in una sintesi. Non solo: tale dualismo nel soggetto femminile si complica se si tiene conto delle diverse forme di potere e di cultura con cui
uomini e donne sono formati.

Il soggetto
In La vita psichica del potere [1], la filosofa femminista Judith Butler riprende il doppio versante e il paradosso della soggettività partendo dal termine stesso, che porta il segno sia di un’esistenza autonoma, il soggetto appunto, e sia dell’essere soggetto all’altro. Nel pensiero freudiano rintracciamo le basi di questi concetti relazionali: innanzi tutto nella costruzione della soggettività individuale attraverso la pulsione sessuale, poi attraverso il rapporto con le figure genitoriali unitamente alla ricerca di un soddisfacente narcisismo. Il discorso di Michel Foucault (1926-1984) e Louis Althusser (1918-1990) viene ripreso da Butler per affermare come lo stato di subordinazione in cui si forma il soggetto «attraverso una sottomissione primaria al potere» (si allude qui sia alle prime strutture di socializzazione, sia alla cultura in generale) assuma nell’individuo allo stesso tempo una «forma psichica che costituisce l’identità stessa del soggetto». Scrive Butler: «Se l’effetto dell’autonomia è condizionato dalla subordinazione e quella subordinazione, o dipendenza fondante è rigorosamente repressa, il soggetto emerge parallelamente dall’inconscio. Il postulato foucaultiano di soggettivizzazione come subordinazione e simultanea formazione del soggetto assume una valenza psicoanalitica specifica quando consideriamo che nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale (anche se tale passione, in senso psicoanalitico, è negativa).

Sebbene la dipendenza di un bambino non sia, per il senso comune, una subordinazione politica, la formazione della passione primaria durante uno stato di dipendenza rende il bambino vulnerabile alla subordinazione e allo sfruttamento […]. Questa situazione di dipendenza primaria, inoltre condiziona la formazione politica e la regolazione dei soggetti e diventa tramite della loro soggettivazione. […]. Prendiamo dunque in considerazione il fatto che un soggetto non solo viene a formarsi nella subordinazione, ma anche che tale subordinazione rappresenta la condizione continuativa di possibilità» (pp. 12-13).

Inoltre, «se il bambino deve persistere psichicamente e socialmente, ci deve essere una dipendenza e la formazione di un attaccamento […]. Questo attaccamento, nelle sue forme primarie, deve contemporaneamente arrivare a essere ed essere negato; affinché il soggetto possa emergere, il suo arrivare a essere deve consistere nella sua parziale negazione» (p. 14). Butler parla di potere come condizione di esistenza del soggetto, cioè della possibilità di fare che è distinta da ciò che il soggetto esercita. Il passaggio verso l’esercizio del potere avviene attraverso lo strutturarsi della coscienza e della riflessione. Il formarsi della coscienza implica la sospensione o la modifica del desiderio: «Il voltarsi indietro del desiderio che culmina nella riflessività produce, tuttavia, un ulteriore livello di desideri: il desiderio per quello stesso circuito, per la riflessività e, infine, per la soggettivazione» (p. 27).

L’impedimento alla realizzazione del desiderio che si opera sia a livello interno di ogni individuo sia sul piano sociale attraverso le norme e i divieti, non produce, osserva Butler, solo repressione, o proibizioni, come diceva Foucault, ma forma anche alcuni tipi di oggetti, impedendo ad altri di accedere al campo della produzione sociale: «Il desiderio di permanere nel proprio essere implica che ci si sottometta a un mondo di altri che è fondamentalmente non proprio (sottomissione che non avviene in tempi successivi, ma che inquadra e rende possibile il desiderio stesso di essere). Solo permanendo nell’alterità è possibile permanere nel “proprio” essere. Essendo vulnerabili rispetto a condizioni mai accettate, si permane sempre, a un certo livello, attraverso categorie, nomi, termini e classificazioni che indicano un’alienazione primaria e inaugurativa nell’esistenza sociale» (p. 25).

Se il soggetto per esistere accetta le condizioni del potere sulle quali non si è mai accordato, ancor più il soggetto femminile si trova in una subordinazione che per tradizione le attribuisce una “potenza” nelle sfere dell’affettività. Butler si chiede: «Cosa potrebbe significare per il soggetto desiderare qualcosa d’altro piuttosto che l’esperienza continuativa della sua “esistenza sociale”? Se una tale esistenza non può essere disfatta senza precipitare in una qualche esperienza di morte, può essa venire nondimeno rischiata, può la morte venire corteggiata e ricercata, pur di esporre e aprire alla trasformazione la presa del potere sociale sulle condizioni di persistenza della vita?» (p.32). Il soggetto (donna) è costretto dunque alla ripetizione, che però non è mai la stessa, e che spesso comporta anche il rischio di una trasgressione e quindi di possibili sanzioni. Ciò che produce il movimento di spirale, che garantisce alla ripetizione una distanza dallo stesso punto di ritorno, è senza dubbio la riflessione, una riassunzione della prospettiva in cui ci si trova, una sospensione dell’“io”, il rivoltarsi contro le condizioni dell’esistere: «Una valutazione critica della formazione
del soggetto può forse offrire una migliore comprensione dei doppi legami ai quali i nostri sforzi emancipatori a volte conducono, senza dover, di conseguenza, estromettere l’aspetto politico.

Esiste, dunque un modo di affermare che la complicità rappresenta la base dell’agency politica […], esistono forse delle importanti conseguenze politiche e psichiche che possono venire forgiate da tale ambivalenza fondante? Il paradosso temporale del soggetto è tale che dobbiamo necessariamente assumere la prospettiva di un soggetto già formato per poter descrivere il nostro stesso divenire. Tale “divenire” non è un processo semplice e continuo, ma una comoda pratica della ripetizione e dei suoi rischi, necessaria eppure incompleta, oscillante sull’orizzonte dell’essere sociale» (p. 34). È dunque tramontato il concetto di una femminilità “essenziale” da rintracciare sotto o al di fuori della socializzazione, ovvero di peculiarità femminili che non sono individuabili negli infiniti e variegati modi con cui si è espresso il soggetto donna nei secoli. Nel processo psichico che conduce una bambina a diventare donna, semplificando, i modelli di potere introiettati sono riconducibili a norme, categorie, immagini, linguaggi appartenenti, da un lato, a una mentalità femminile-materna in cui sono in primo piano gli affetti e la relazione, dall’altro a una mentalità maschile-paterna in cui prevale il singolo che esercita attivamente un controllo e delle imposizioni sull’altro.

In un breve e sottile saggio del 1964 [2], lo psicoanalista infantile Donald W. Winnicott (1896-1971) rievocava il tema della dipendenza assoluta dalla madre che c’è in ogni essere umano e ricordava quanto il maschio sia visibile come un essere unico, solitario, mentre ogni femmina si trova in una sequenza senza fine: bambina, madre, nonna (mentre scrivo è annunciata la nomina di Nancy Pelosi a presidente della Camera statunitense: nel suo discorso si rivolge alle madri, alle figlie, e le immagini televisive la presentano circondata dai suoi nipoti). Il soggetto femminile oggi oscilla al suo interno tra questi due modelli, spesso opposti e non certo integrabili in una sintesi, ma da cui non si può prescindere. Nel movimento femminista l’identificazione con il padre, ovvero lo spauracchio dell’omologazione è stato agitato a proposito della presenza femminile nel tessuto sociale e nei luoghi dove si esercita il potere maschile. Si è espresso il timore che la coesione o l’identità delle donne potesse essere cancellata in “territori stranieri”, presupponendo un’immagine di soggetto femminile univoco, che sarebbe stato in questo caso totalmente virilizzato e quindi
rovesciato rispetto alla sua costituzione femminile. Il sospetto di un possibile plagio degli uomini nei confronti delle donne rafforzava l’idea che potessero esistere luoghi e donne miracolosamente indenni da identificazioni maschili e dagli scambi sociali tradizionali. Come se non ci fossero radicate connivenze con la cultura tradizionale anche negli spazi femminili separati. Il percorso dell’emancipazione va visto come necessario, purché si rifletta su cosa viene imposto e insieme cancellato. Ma ugualmente il percorso della liberazione va seguito per scoprirne gli aspetti di negazione della subordinazione rispetto alla cultura tradizionale. Negazione che, se non viene vista, riafferma in modo subdolo e inconsapevole il passato. Il concetto di “una femminilità da far emergere”, di una differenza sessuale definibile, e quindi di una effettiva gestione del potere diversa per maschi e femmine è stato, d’altra parte, uno strumento essenziale per i gruppi separatisti delle donne, per creare un terreno di coltura di nuovi scambi, di socializzazione diversa. Ma va considerato, più che una teoria, un grande mito del Novecento.

Diceva Ernst Cassirer (1874-1945) che nel pensiero mitico l’intuizione del dato non viene estesa ma concentrata in un solo punto. In questa concentrazione, alcuni contenuti intuitivi diventano centri di forza linguistico-mitica, punti focali di significatività, mentre altri rimangono come al di sotto della soglia di importanza. Per il concetto mitico non importa tanto l’estensione, quanto l’intensità, non importa la quantità ma la qualità. Il mito per alcuni studiosi avrebbe la funzione principale di fissare i modelli esemplari di tutti i riti, e di tutte le azioni umane in modo da fornire un modello extratemporale e astorico ogni volta che si tratta di fare qualcosa di per sé inaccessibile all’apprendimento empirico-razionale. Il mito non è finzione ma storia vera. Tutti coloro che hanno studiato il mito, sia pure in modo diverso, ne hanno sottolineato l’importanza per la costruzione ideale e concreta di istituzioni sociali e culturali.

La politica
La risposta al dominio vissuto nei secoli da parte delle donne non sta certamente soltanto nell’identificarsi in un soggetto recintato nello spazio famigliare o nel ruolo di “vittima”. Le forme di resistenza femminile sono di un’altra pasta, e il loro inventario è appena incominciato. È vero che nel corso del tempo le rivolte frontali contro il potere maschile sono state poche, ma la lotta dei sessi ha a che fare solo in piccola parte con lo scontro fra ordini e classi. I rapporti tra la sfera pubblica e la sfera privata mutarono già nell’Ottocento, e a poco a poco il potere sociale, maschile, è stato concesso alle donne per lo sviluppo dello stato sociale. Ciò che cambia nei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata è l’esaltazione di un “potere sociale” dapprima largamente maschile e poi via via concesso – parzialmente – alle donne, che vengono sollecitate a non contentarsi più delle dolcezze del focolare e a uscire di casa.

Gli stessi interventi propriamente femministi, espressione dei diritti delle donne e nati da poco più di un secolo, si producono il più delle volte nelle brecce aperte dal crollo dei sistemi politici, nelle crepe di una rivoluzione, nelle crisi di un governo. È come se fosse una rivendicazione latente che coglie l’occasione per manifestarsi. Queste rivendicazioni rivestono forme private o addirittura segrete, oppure formano una catena di connivenze capace di dare scacco ai dominanti. Questo femminismo informale mette a volte in gioco poste ragguardevoli; un esempio è il controllo delle nascite, che, una volta avvenuto attraverso la pillola, ha permesso di chiedere il diritto all’aborto. Analogamente, il divorzio in Italia: una volta approvato, le separazioni sono state chieste soprattutto dalle donne.

Ma come sappiamo queste grandi rivoluzioni non hanno occupato ancora le zone cruciali del potere sociale. Negli ultimi anni l’attenzione all’acquisizione del potere sociale da parte delle donne e alla disuguaglianza di genere nella politica istituzionale è stato un tema che ha stimolato parecchie ricerche, soprattutto europee. Mi vorrei riferire qui a due lavori che mi sembra possano intrecciarsi con le riflessioni di Butler: l’approfondito lavoro che l’ASDO (Assemblea delle Donne per lo Sviluppo e la Lotta all’Esclusione Sociale) sta svolgendo su «Donne in Politica» (RADEP) (1) e alla ricerca da me svolta sull’influenza degli stereotipi di genere nell’acquisizione di potere sociale da parte delle donne [3] .

Lo studio dell’ASDO ha seguito il difficile cammino delle donne in politica, mettendo in risalto da una parte le aree di esclusione e di resistenza rispetto alla gestione del potere politico e dall’altra ha individuato quegli atteggiamenti delle stesse donne politiche che potrebbero favorire una socializzazione di genere. La più comune manifestazione di esclusione è la “segregazione verticale diffusa”, per cui le donne in qualsiasi tipo di attività sociale occupano posti di minore responsabilità rispetto agli uomini. È possibile che, data la diffusione del fenomeno, le differenti modalità di esclusione nei vari ambiti sociali (magistratura, imprenditorialità, pubblico impiego, accademia, ecc.) si rafforzino a vicenda e che la diffusione del fenomeno eserciti una pressione «dalle caratteristiche e dalla portata ancora poco note – alla quale è molto difficile per le donne sottrarsi» (II, p. 21). Tra i diversi fattori di esclusione, le ricercatrici sono rimaste colpite dalla prevalenza di un elemento che è stato denominato «disarmonia» e che si riferisce «a elementi cognitivi e culturali impalpabili» (rispetto per esempio a problemi concreti come la mancanza di risorse economiche per una candidata politica) (I, p. 76): «La ricerca ha messo in luce, presso le donne politiche e sindacaliste, che il fattore di ostacolo che produce l’area di rischio “Disarmonia” è quello prevalente. Esso è legato a tensioni e conflitti prodotti da una differenza negli approcci, negli stili e nelle priorità di uomini e donne rispetto all’esercizio del potere» (II, p. 28). Tale disarmonia può anche essere descritta come uno «“sfasamento cognitivo” tra i generi quanto a priorità, sensibilità e stili di gestione del potere. Si tratta di una dinamica ricorrente, all’interno delle élite, nei confronti dei soggetti portatori di elementi di diversità e che, in questo caso, riguarda in particolare gli atteggiamenti e i comportamenti degli uomini e – più in generale – la cultura maschile dominante nell’ambiente politico, con le sue conseguenze sulle possibilità di successo delle donne» (II, p. 27).

La ricerca ASDO accenna alla “doppia soggettività” di cui spesso le donne si sentono portatrici, e che, secondo me, rimanda alla subordinazione dai due modelli di riferimento maschile-paterno,
femminile-materno, che «può creare loro difficoltà nel partecipare pienamente a quei processi di convergenza e di forte identificazione con una parte politica, e quindi con obiettivi, programmi, tempi e priorità che caratterizzano la politica attiva. La doppia soggettività si manifesta a volte in quelle coalizioni trasversali di donne, che suscitano diffidenza nei leader di partito» (II, p. 27).

Proprio degli «elementi cognitivi, e culturali impalpabili» mi sono occupata ultimamente a proposito dello sbarramento o del rallentamento nell’acquisizione del potere sociale prodotti dalla cultura mediatica attraverso gli stereotipi di genere [3]. Nelle interviste a donne politiche è emerso quanto quel- l’aspetto doppio del potere, che oscilla tra forza e oppressione, comporti che la sua assunzione sia sempre tinta dall’ambivalenza. Le intervistate vorrebbero avere l’aspetto solo positivo del potere, attribuendo i carichi negativi alla politica dei partiti e del mondo politico. Il potere positivo, per loro, è quello svincolato dalle gerarchie e dai compromessi, risiede in una fantasia di essere autorevoli, dove tale autorevolezza possa essere riconosciuta, “naturalmente”, senza imposizioni e conquiste. Dove il riconoscimento assume il peso certamente più importante rispetto al dominio.

Le risposte delle politiche intervistate nella ricerca sugli stereotipi sono sovrapponibili a quelle delle intervistate nella ricerca dell’ASDO, in particolare quando viene sottolineata la differenza rispetto al potere maschile, visto sempre come dominio, scontro, guerra, carriera, ambizione. Le donne hanno usato e usano il loro potere per favorire la crescita altrui – e non solo dei bambini, ma anche di molte altre persone. Questo processo viene definito come l’uso del potere per aumentare quello degli altri – aumentare le loro risorse, le loro capacità, la loro efficienza e abilità nell’agire. Nel “prendersi cura” o nel “nutrire” sono componenti importanti le azioni e le interazioni che promuovono la crescita dell’altro a vari livelli, emozionale, psicologico e intellettuale. È questo il processo della crescita, esercizio di una grande potenza, che le donne hanno sempre esercitato ma che d’abitudine non è incluso nelle concezioni di potere. Potenza che d’altra parte comprende un modo di agire, un fine e un contesto diverso. Chi la esercita riconosce di non dover avere una totale influenza o dominio ma che è necessario trovare delle strade diverse per interagire con l’altra persona, cambiando insieme e continuamente la proprie forze e i propri poteri. E questi vanno applicati al momento giusto, nelle diverse fasi, cambiando modalità, così da aiutare la persona meno potente ad avanzare verso una posizione di maggiore forza e autonomia.

Oggi è questo tipo di potere, flessibile e partecipativo, legato alla crescita degli altri, allo stabilire relazioni e collegamenti, che molte organizzazioni produttive segnalano come peculiarità femminile e che privilegiano nei leader. È questo modello, nei suoi aspetti ideali, che fa proporre alle donne politiche intervistate interpretazioni del potere che sembrano paradossali o addirittura irreali. Per loro il potere equivale a “mantenere una relazione veramente paritaria anche quando vi è una sproporzione nel potere che si esercita”, o significa avere “autorevolezza senza autoritarismo” o “il massimo di autorità con minimo potere”, o considerare la politica solo come “fare bene”.

E della stessa opinione sono le donne intervistate dall’ASDO. Non è certamente questo il tipo di potere a cui pensiamo abitualmente, cioè la capacità di agire, di aumentare la propria forza, la propria autorità la propria influenza, e anche di controllare e di limitare gli altri – cioè di esercitare il dominio ov- vero dominare attraverso l’esercizio della forza. Le donne che nel lavoro ottengono una corrispondenza tra competenza e riconoscimento riescono ad avvicinarsi a quell’ideale di “autorevolezza” che non richiede azioni di potere, ma certamente è un ardua e rara realtà. Spesso proprio i conflitti e le delusioni per la mancanza di riconoscimento allontanano le donne dal lavoro e dalla politica per riportarle all’apprezzamento che nelle relazioni affettive, soprattutto i bambini, danno a piene mani. Per le donne ci sarebbero minori conflitti a gestire il potere se questo fosse solo applicazione del “fare bene”, sia per quanto riguarda la loro preparazione teorica sia per il pragmatico governare. In politica, invece, spesso il potere deriva dall’appartenenza a un gruppo e dalla disponibilità ad aderire e integrarsi con questo, aldilà delle proprie competenze.

Come dicevo, per quanto riguarda il potere, quasi tutte le intervistate hanno espresso difficoltà e diffidenza nell’uso del potere. Il rapporto non è chiaro, anzi è connotato negativamente. C’è la tendenza ad aggirare la voglia di potere con teorie di tipo etico, proponendo appunto la soluzione un po’ improbabile di mantenere una relazione paritaria anche quando si esercita del potere; nel movimento femminista si diceva «massimo d’autorità con minimo di potere», dove la fantasia sottostante era sempre quella di un consenso senza lottare per averlo. Il potere è definito un buco nero, una “bestia nera” e si ribadisce che sono poche le donne ad accedere al potere, con il sottaciuto pensiero, che essere poche è un merito per non essersi sporcate con il potere. Se viene manifestato un atteggiamento positivo verso il potere, lo si intende come governare, raggiungere dei risultati. Si tratta del potere collegato al fare in prima persona, al prodotto quotidiano; rimane invece in ombra l’idea di comandare, di “far fare agli altri”.

Sessualità e potenza materna
La differenza di genere nell’esercizio del potere non può non rimandare alle differenti rappresentazioni della sessualità maschile e femminile. “Impotenza” è termine per la sessualità maschile che non si compie, mentre “frigidità” indica quella femminile in cui non c’è raggiungimento del piacere. I termini rimandano il potere alla sessualità maschile e alla sua identità, mentre designano la femminilità nell’ambito del “sentire”; l’orgasmo non ha solo la funzione di uno scarico della tensione ma anche quello di convalida della propria identità e dell’appartenenza di genere. Sempre più oggi la sessualità non-procreativa, quindi meno connessa alla necessità di legami durevoli – una vera rivoluzione culturale nel Novecento – ha come fine prioritario quello di rinforzare l’identità individuale.

Negli anni Cinquanta lo psicoanalista scozzese Donald Fairbairn aveva inteso la sessualità, diversamente da Freud, non solo come ricerca e soddisfazione del principio del piacere, ma come necessità per ogni essere umano di stabilire un legame con un oggetto (la libido è vista come tensione, ricerca di un oggetto) e quindi strettamente conseguente alla risposta dell’altro [4]. Dal momento che la sessualità si sviluppa all’interno del legame di dipendenza infantile, non è libera da connotazioni di sottomissione, di dominio, di rivincita. All’interno delle relazioni di coppia il potere unito alla sessualità viene giocato in modi diversi nei partner, con il rifiuto, l’indifferenza, la violenza e la seduzione. La sessualità maschile legata al mito di un fallo sempre in erezione, che dovrebbe soddisfare con le sue prestazioni un’innumerevole serie di donne, e d’altra parte così minacciata dall’impossibilità di nascondere i suoi insuccessi, è sempre alla ricerca di controllo e di possesso su ciò che può essere fonte di piacere: oggetti, persone, denaro per il consolidamento della propria immagine.

Il famoso luogo comune maschile “comandare è meglio di fottere” ribadisce quanto sessualità e potere siano legati, e vuole significare che sicurezza, senso di sé non sono tanto garantiti da una sessualità, che nell’attuarsi concretamente è spesso a rischio, quanto dal legame di domino diretto e di controllo sull’altro. Un analogo meccanismo si potrebbe leggere nel processo femminile per cui, in passato, le donne rinunciavano alla sessualità e al piacere per la conferma narcisistica offerta dalla “sacralità” dell’essere madre.

Come dicevo, per le donne il potere ha due referenti: da una parte l’onnipotenza della madre nel suo legame con il neonato, dall’altra il potere maschile basato su un’immagine di libertà sessuale e d’azione, di forza, di dominio sull’altro, di indipendenza. La maternità come esperienza porta con sé la maternità come identità sociale e come istituzione politica che prevedeva, almeno nel passato, una relazione non ambivalente coi figli e per le donne senza figli uno statuto di eccezione. Solo dagli anni Quaranta sempre più si è riconosciuta la potenza materna che si è estesa dalla procreazione alla formazione dell’individuo, mentre è andato diminuendo il potere del padre. Il riconoscimento della potenza materna ha dato importanza sociale al ruolo femminile all’interno della famiglia, ma ha insieme potenziato il conflitto per le donne che nello stesso tempo erano uscite di casa ed entrate nel mercato del lavoro.

Da quando, attraverso gli studi psicoanalitici e cognitivi, la madre è diventata colei che struttura l’identità individuale, molto più della paternità, sempre più le donne sono state sovraccaricate di responsabilità, che si trasformano in una colpa difficilmente tollerabile. Eppure, molte donne consolidano la loro identità attraverso il lavoro e con la professione allargano le loro conoscenze migliorando anche le loro prestazioni all’interno della famiglia. È una dietrologia eccessiva pensare che l’accentuazione sulla responsabilità materna nell’allevamento della prole serva a controbilanciare l’uscita delle donne dalle loro case? Gli anni tra i venticinque e i trentacinque sono critici sia per il lavoro che per l’allevamento dei figli ed è difficile comprendere a fondo, se non lo si è vissuto, lo scontro tra il tempo da dedicare ai figli e quello da dedicare al lavoro. Stanchezza cronica, ansia, quasi panico, senso di essere sempre in arretrato, o di dover essere in due posti contemporaneamente sono conseguenze di questa divisone di ruoli.

La posizione ambivalente
Spostarsi dal campo della riproduzione a quello delle azioni sociali comporta la perdita di quell’onnipotenza materna alla quale abbiamo fatto riferimento prima e quindi una definizione e un’immagine di sé che prevede limiti e mancanze, e minori sicurezze e riconoscimenti. In questo essere catturate in due realtà, opposte finora nei tempi, negli scopi e nei mezzi di realizzazione, senza più garanzie del mondo passato, senza modelli di ruoli riconosciuti, l’ambizione e il potere hanno terreni di crescita difficili. Per uscire dai conflitti e dai contrasti con gli uomini nell’ambito dell’affermazione sociale, la conquista del potere o del successo è fantasticata come un evento che s’impone dall’esterno, una favola che si realizza attraverso il legame con un uomo; sono le storie ripetute dai media e tanto popolari fra le lettrici. A volte gli uomini politici realizzano tale fantasia attraverso la cooptazione di donne nei posti di potere. Si risolve in questo modo per le donne lo scontro tra due bisogni: quello di autoaffermazione e quello di intimità affettiva.

Spesso un elemento che impedisce alle donne di entrare più numerose in politica e di occupare posizioni di rilievo è la riluttanza a porsi in conflitto con i leader politici, riluttanza che le tiene in una posizione di sfondo e impedisce loro di allearsi trasversalmente con le donne politiche di altri partiti. Proprio perché compare poco il desiderio del potere o la lotta per esso, i leader sembrano non essere messi in discussione – anche perché in una buona parte delle donne politiche intervistate sono stati i padri reali a dare loro il suggerimento, l’autorizzazione a entrare in politica. In una ricerca francese sulla composizione famigliare delle donne parlamentari si nota che le primogenite rappresentano il 43 per cento (le figlie uniche sono il 30 per cento) [5]. Ciò porta a pensare che quella donna nel suo costituirsi come soggetto attraverso la subordinazione ha potuto vivere il dualismo tra i diversi modelli di potere in modo meno conflittuale. Il soggetto si riconosce in ruoli e identificazioni maschili che poi può contestare, sentendone la distanza, ma non la totale estraneità. Come dice Butler se il soggetto desidera qualcos’altro che non ha a che fare con l’esperienza «continuativa della sua esistenza sociale» come potrebbe desiderare qualcos’altro «senza precipitare in una qualche esperienza di morte»?

Spesso le donne, temendo che una forte ambizione personale attacchi la stabilità delle relazioni, sacrificano la loro ambizione per preservarle. In questo caso si preferisce il potere interpersonale a quello personale, rientrando nell’area dell’“onnipotenza” materna. Quando riescono nel lavoro, a volte le donne non riconoscono il loro successo, lo attribuiscono alla fortuna, a qualcosa di esterno che le ha favorite, per esempio le loro relazioni sociali piuttosto che le competenze, così rimangono in ruoli ausiliari e non vogliono assumere maggiore visibilità e potere. Sarebbe infatti un tradimento non ammissibile, una diminuzione dell’onnipotenza, rispetto a una figura sacrale, spirituale, trovare soddisfazioni materiali, commiste di piacere e aggressività. Le donne hanno una difficoltà ad accettare un modello di potere come viene spesso definito dalla società patriarcale, proprio perché questo non le comprendeva come soggetti di azione politica e sociale, ma come soggetti di affettività e di sentimenti. Perciò per poter agire come soggetti contestano il potere o lo ripetono o cercano di trasportare nell’ambito sociale la potenza materna.

Nella ricerca dell’ASDO viene individuato nella differenza di stili e dell’esercizio del potere in uomini e donne (disarmonia) uno dei principali elementi dell’esclusione femminile dai vertici politici. Al tempo stesso, però, il sentimento, l’atteggiamento soggettivo, di diversità, di estraneità è visto come un fattore che produce cambiamenti positivi nel processo di socializzazione di genere: «Dalla ricerca, le attitudini con maggiori potenzialità di innovazione (e in quanto tali denominabili primarie) sono risultate essere: senso di estraneità, approccio critico, “mito” del valore aggiunto delle donne, negoziazione pubblica e negoziazione privata» (II, nota 2 p. 46). Ci troviamo così davanti a una “estraneità” portatrice di una spiccata ambivalenza perché insieme genera esclusione o possibile trasformazione. Quanto la diversità produca una spinta in avanti o un arroccamento su posizioni più rassicuranti è difficilmente prevedibile. Certamente il passo iniziale per un cammino, che non sia esclusivamente ripetitivo, è quello della consapevolezza, della riflessione, quanto più possibile condivisa e non giudicante insieme alle altre donne. In questo campo, seguendo ancora
Butler, è questo il momento della formazione della soggettività, e buona parte di essa include la creazione e il perseguimento del “mito” sul valore aggiunto delle donne nella gestione del potere. D’altronde ogni soggetto insiste su un pensiero mitico forte, che porta con sé cultura e simboli necessari alla trasformazione sociale.

Notano le ricercatrici dell’ASDO quanto nell’azione politica il loro campione di intervistate scarseggi di un comportamento negoziale con la controparte maschile e quanto sia invece rilevante la “negoziazione privata” nell’ambito degli affetti. Ciò mostra come la soggettività femminile insista nel campo del “soggetto come subordinato” e lotti e si muova ancora all’interno della definizione di soggetto che le viene data tradizionalmente, in quanto donna, dalle norme e dalla cultura. Come dice Butler, «permanere in se stessi significa venire affidato all’inizio della propria vita a termini sociali che non sono mai pienamente i propri», ma certamente è determinante quanto i termini sociali, che non sono mai pienamente propri, siano contrastanti, opposti o al contrario ambigui rispetto alla propria identità sessuale. Le donne e la cultura italiana sembrano molto invischiate nei fantasmi della femminilità tradizionale e nella contrapposizione delle sfere di competenza tra uomini e donne, tra potere maschile e potenza materna.

La richiesta, l’aspettativa di nuove regole, incentivi, quote, ecc. in campo sociale rappresenterebbe un riconoscimento sovraindividuale da parte di uomini e donne, che funzioni come un ponte tra due mentalità. Il ponte è uno strumento per il transito di molte persone; le poche donne che oggi riescono ad andare e venire tra le due sponde pagano un alto tasso di solitudine, perché non persistono più tanto nell’«esperienza continuativa della loro esistenza sociale» come donne e insieme sono estranee al nuovo campo sociale, anzi pongono il loro valore nell’opposizione e nella trasformazione di esso. Il soggetto femminile risulta assediato da molteplici situazioni ambivalenti nella loro appartenenza ai significati, alla cultura della femminilità, da una parte, e nella tensione verso l’acquisizione sul piano sociale di nuove identificazioni, senza potere eliminare uno dei due campi. Perché tale ambivalenza possa comportare l’utilizzazione di risorse diversificate diventa primaria la consapevolezza del voler oscillare nei due campi, maschile e femminile e del contenere entrambe le posizioni.

Prendere atto del rapporto ambivalente con la realtà corrisponde a essere consapevole di quelle situazioni in cui la scelta tra due posizioni opposte o comunque assai diverse viene rifiutata, poiché sembra indispensabile mantenere e combinare le due posizioni. Ne risulta un’insoddisfazione su entrambe le scelte, che però sono quelle possibili, mentre optare per una sola delle soluzioni porterebbe a livelli di esclusione o di diminuzione delle proprie capacità difficili da tollerare. Questo tipo di condotta segna una trasformazione della cultura così profonda da essere posta oggi al centro dell’analisi del comportamento femminile [6]. Alain Touraine nel suo ultimo libro, Le monde des femmes, sottolinea come questo modo di pensare la realtà sia diverso rispetto alle scelte radicali, alle ipotesi di risoluzione dei conflitti, di integrazione e superamento degli opposti: «I comportamenti che si definivano attraverso l’opposizione “o…o” erano orientati da una certa rappresentazione della società e della storia, mentre il tema dell’ambivalenza si allontana da tutte
le leggi della storia, o da tutte le concezioni funzionaliste dell’ordine sociale, accordando il posto centrale non più al sistema, ma all’attore che può e deve così combinare una forma di partecipazione sociale con una forma di autonomia personale» (p. 83). La forza di tale posizione, in cui la migliore scelta possibile è quella di accettare che non c’è una scelta ottimale, risiede, secondo Touraine «nel liberarsi dalle filosofie della storia e di sostituire all’illusorietà del senso di evoluzione la chiamata in causa dell’attore stesso e della sua capacità di costruire la propria identità nel mezzo dei cambiamenti sociali» (p. 85).

L’immagine un po’ eroica di chi costruisce la propria identità e agisce sulla realtà in mezzo ai cambiamenti sociali certamente fa parte del “mito” sul nuovo soggetto femminile. Quello che a me sembra è che per affrontare questo gravoso compito le donne debbano continuamente transitare tra l’appartenenza a campi di significati dissonanti, differenti, opposti e contraddittori e una dura solitudine.

NOTA
(1) L’ASDO ha presentato in occasione di un convegno svoltosi a Roma nel novembre 2006 un “Rapporto di Ricerca: Donne e politica ” e una “Proposta di Linee Guida per la sperimentazione”. Le citazioni si riferiscono a questo materiale dattiloscritto riferendo la sigla “I” al Rapporto di ricerca e “II” alla Proposta. I materiali sono rintracciabili sul sito www.donnnepolitica.org.

BIBLIOGRAFIA
[1] BUTLER J., La vita psichica del potere, Meltemi editore, Roma 2005.

[2] WINNICOTT DONALD W., «Questo femminismo» (1986), in Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina Editore, Milano 1990, pp. 193-205.

[3] MOLFINO F., Donne Politica e Stereotipi. Perché l’ovvio non cambia?, Baldini e Castoldi, Milano 2006.

[4] FAIRBAIRN D., «Visione generale dell’evoluzione delle concezioni dell’autore sulla struttura della personalità» (1951), in Studi psicoanalitici sulla personalità, Bollati Boringhieri, Torino
1970, pp. 196-214.

[5] SINEAU M., Profession femme politique, Presse de Sciences Politiques, Paris, citata dalla ricerca ASDO, 2001.

[6] Vedi anche CALABRÒ A.R., L’ambivalenza come risorsa, Laterza, Bari 1997.

[7] TOURAINE A., Le monde des femmes, Fayard, Parigi 2006.

Immagine: Operaie a Savona, luglio 1954 (archivio storico della CGIL)

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