Barbarie senza confini

Atto d’amore per la cultura africana, barbara mutilazione per quella occidentale. Sono questi i due volti di un fenomeno che secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, interessa ogni anno almeno 130 milioni di donne e bambine in tutto il mondo. E che continua a crescere a una media di due milioni l’anno. Si tratta della pratica delle mutilazioni genitali femminili (Mgf) considerata dalle tradizioni locali africane un completamento della femminilità. Le sue radici risalgono addirittura alla mitologia che attribuiva agli dei un carattere bisessuale. La circoncisione quindi nell’uomo e nella donna, assicurava all’uno la virilità, all’altra la femminilità.

E così si spiega la sopravvivenza di una pratica oggi considerata uno dei più barbari esempi di tortura, ma regolarmente utilizzata in circa trenta paesi africani soprattutto presso le comunità islamiche e i nomadi animisti, ma anche presso i cristiani e gli ebrei etiopi. “Se non si comprendono le culture indigene, gli sforzi esterni per sradicare questa tradizione sono destinati a fallire”, scrive l’antropologa sudanese Rogaia Mustafa Abusharafat.

Ma l’operazione che priva le donne del piacere non viene compiuta soltanto presso le comunità africane, perché il fenomeno è divenuto globale. “Il problema delle mutilazioni genitali femminili sta diventando sempre più parte della realtà europea”, dichiara Emma Bonino. Che, insieme ai deputati della sua lista al Parlamento europeo e all’Associazione italiana donne per lo sviluppo (Aidos), ha organizzato lunedì scorso una conferenza presso la Camera dei Deputati.

Secondo stime non ufficiali, infatti, questa pratica coinvolge anche in Europa almeno seimila bambine ogni anno e il fenomeno è destinato ad aumentare anche a causa della forte emigrazione dai paesi dove le Mgf vengono costantemente praticate. In occasione della conferenza “Proposte per un cambiamento” sono state presentate le diverse iniziative in atto per combattere il fenomeno. La stessa Bonino lo scorso novembre ha fatto approvare dal Parlamento di Bruxelles una risoluzione ufficiale per chiedere che venga applicato il diritto di asilo politico alle donne che si rifiutano di sottomettersi alle mutilazioni. Da allora sono state accolte tre richieste in Belgio e Francia e 25 domande sono arrivate in Germania.

“Questo è lo strumento principale con cui si possono combattere le mutilazioni genitali femminili”, afferma Bonino, “e infatti è sostenuto energicamente anche dall’organizzazione statunitense Human and Civil Rights”. Gli altri strumenti internazionali attualmente esistenti sono la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, la risoluzione 251 del 1992 del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite sulle pratiche tradizionali che minacciano la salute delle donne e dei minori, la dichiarazione dell’Organizzazione dell’Unità africana del 1995 per un piano d’azione che riguarda la situazione delle donne in Africa e, infine, la piattaforma di azione della quarta conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995. Per quanto riguarda l’Italia, sono stati proposti vari disegni di legge per stabilire il divieto delle mutilazioni, che oggi vengono eseguite per lo più in cliniche private. E, in Europa, una normativa in materia esiste soltanto in Inghilterra, Svezia e Norvegia.

Le mutilazioni genitali femminili sono in continuo aumento, dunque, nonostante i disegni legislativi e le proposte d’intervento non siano del tutto assenti. In alcuni casi le donne culturalmente più emancipate sono spinte a ribellarsi, in altri invece questa pratica viene percepita come normale. Soprattutto perché si è diffusa l’abitudine a mutilare le bambine nei primi anni di vita, quando non hanno ancora sviluppato il desiderio sessuale e non si possono rendere conto del significato della mutilazione.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ne esistono tre tipi principali: la sunna o asportazione del prepuzio del clitoride, l’escissione – diffusa soprattutto in Egitto e in alcuni paesi dell’Africa orientale – che consiste nell’asportazione del clitoride e, a volte di tutte o parte delle piccole labbra. E infine l’infibulazione, quella più terribile, diffusa soprattutto in Somalia, Gibuti e Sudan che consiste nell’ablazione completa del clitoride e delle piccole labbra, con cucitura delle grandi labbra.

Oltre alle conseguenze sulla salute delle donne, dalla diffusione dell’Aids per la mancata sterilizzazione degli strumenti utilizzati, alle emorragie, alle infezioni, alla difficoltà di parto che diventa estremamente doloroso e che rischia di uccidere il feto, le donne che subiscono una mutilazione genitale accusano delle ricadute psicologiche durissime. Spesso infatti cadono in stati depressivi e soffrono di cambiamenti umorali. Inoltre questa pratiche, effettuate per preservare la verginità e la fertilità, spesso sono invece causa di sterilità. E, per le usanze africane, questo significa per la donna essere emarginata e ripudiata dalla comunità. O addirittura cacciata di casa o uccisa se la pratica, provocando la ritenzione del sangue mestruale, blocca il flusso e gonfia l’addome, tanto da farla sembrare incinta. Ironia della natura.

Spesso inoltre le donne non sono informate sui loro diritti così, sottolinea Bonino, “è necessario effettuare una campagna focalizzata. Per questo abbiamo in progetto un sito Internet anche in lingua araba e francese che possa fornire un supporto a chi decide di rifiutare la mutilazione”. E aggiunge: “i risultati di questa battaglia sono ancora lontani, anche se nel corso del mio viaggio in Africa ho assistito a una cerimonia pubblica molto significativa: le praticone di 11 villaggi, le donne che effettuano le operazioni con mezzi di fortuna, hanno consegnato spontaneamente i loro coltelli, lamette e aghi, in un segno simbolico di rinuncia a praticare le mutilazioni sulle bambine. Un segno forse del fatto che siamo sulla strada giusta”.

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