Si fa presto a dire salute

    Che significa stare bene? Qual è la definizione di salute? In un editoriale del dicembre 2008 sul BMJ, Alex Jadad e Laura O’Grady avevano invitato a ridefinire il concetto di salute attraverso un processo collaborativo e collettivo (A global conversation on defining health: Alex Jadad and Laura O’Grady, 10 december 2008: alcuni dei commenti al post sono molto interessanti).
    La proposta è stata accolta e sviluppata in rete e in un convegno svoltosi nel 2009 nei Paesi bassi. Fiona Godlee è tornata sull’argomento a circa tre anni di distanza dall’inizio di questa global conversation (What is health?, BMJ, 27 july 2011) perché proprio in questi giorni Jadad e i suoi collaboratori ne hanno presentato i risultati. La proposta per la nuova definizione è la seguente: la capacità di adattarsi e di cavarsela di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive.
    Definire la salute – e definire qualsiasi argomento di cui parliamo – è fondamentale perché se non lo facessimo non avrebbe alcun senso, per esempio,  affermare l’importanza del perseguimento della salute o delineare gli strumenti per garantirne l’accesso. Dobbiamo sapere cosa cerchiamo e cosa perseguiamo per rendere il discorso sulla salute un discorso sensato.
    È interessante anche quanto emerge dalla discussione rispetto alla definizione di salute fornita dal World Health Organization (WHO) nel 1948: la salute era allora stata definita come completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto come assenza di una patologia o di un malessere (“a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity”). Questa definizione non solo sarebbe inutile, ma perfino dannosa perché utopica. Il benessere completo rischia di esistere solo sulla carta. Basterebbe un piccolo acciacco, una lieve alterazione dei nostri valori del sangue o di altri parametri fisiologici per esserne esclusi – insomma, ognuno di noi potrebbe illudersi di corrispondere alla definizione del 1948, essendone in realtà più o meno lontano. Senza pensare che con tutta probabilità non abbiamo fatto un test genetico e quindi qualche malattia asintomatica potrebbe starsene nascosta nel nostro organismo.
    Per i medici la salute è una condizione negativa – l’assenza di una malattia. La salute è una illusione e se lasciaste fare ai medici esami genetici e sanguigni, state sicuri che troverebbero qualcosa che non va – commenta Robert Smith, che poi propone un esempio utile per sottolineare un nodo cruciale nella pratica medica (The end of disease and the beginning of health, BMJ, 8 july 2008). Pensate a Lucy: il suo cuore è capriccioso, soffre di asma, di diabete e di artrite. C’è uno specialista per ogni patologia. Lucy non è molto interessata al suo quadro clinico e non è preoccupata di morire. Vuole andare a trovare il figlio che vive in Australia una volta ancora prima di morire. Da quando il marito è morto, la sua vita non è più stata la stessa. Lucy ha bisogno di una agenzia di viaggio e non di 5 dottori! L’esempio serve a Smith per sottolineare un aspetto fondamentale e spesso trascurato: dovrebbero essere le persone e non le malattie al centro delle preoccupazioni sanitarie. Nel leggere la conclusione di Smith non si può non aggiungere una ulteriore riflessione: se dobbiamo concentrarci sulle persone prima che sulle malattie, la loro volontà sarà centrale nelle decisioni sanitarie – è doveroso sottolinearlo in un momento di profonda sofferenza del principio di autodeterminazione nel nostro paese.

    Non solo moltissime persone sarebbero escluse dalla definizione di salute del 1948, ma il suo taglio idealista avrebbe suo malgrado contribuito alla medicalizzazione della società, connotando alcune caratteristiche umane come fattori di rischio di patologie.
    L’antica definizione incontra anche un nuovo problema: l’aumento della vita media e l’aumento delle malattie croniche ci costringono infatti a rivedere e a riconsiderare i concetti di autonomia” e “benessere”. È evidente l’importanza del contesto in cui lo sforzo di definire si colloca.
    Se la nuova definizione di salute ci convince, la prima domanda cui dovremmo cercare di rispondere è: come possiamo incentivare quell’adattamento che è il cardine della nostra salute? La discussione globale potrebbe spostarsi su questo piano e dovrebbe includere quanti più punti di vista possibile, anche quelli che a un primo sguardo potremmo trovare fuori tema (Edwin Heathcote, Old age and the cities, “BMJ”, 25 july 2011 ).

    1 commento

    1. Gentile dottoressa, personalmente temo che – in modo assolutamente paradossale – si stia realizzando quanto sostiene il dr. Knock, il protagonista della più conosciuta opera teatrale di Jules Romains, intitolata ”Knock, ovvero il trionfo della medicina”.
      In questa satira sui medici e sulla medicina, l’Autore mette in bocca al dr. Knock la celebre frase: «I sani non esistono: ci sono solo malati che non sanno di esserlo».
      Questa nota frase è ripetuta spesso da chi denuncia la eccessiva medicalizzazione della società (e allora non si può non pensare a Ivan Illich).
      D’ altra parte, è noto che la scienza è controintuitiva.
      E la scienza medica ci sta portando inevitabilmente ad una concezione di salute che è (ripeto, in modo assolutamente paradossale!) simile (oibò!) a quella del dr. Knock.
      Dobbiamo convincerci (anche se è tutt’altro che piacevole!) che siamo (quasi) tutti malati.
      Gli unici sani (ma se ce ne rende conto a posteriori) sono coloro che danno fondo interamente a tutta la potenzialità dell’ essere umano e muoiono al compimento dei 110 o 115 anni. Tutti gli altri non sono sani.

      Propongo un esempio. Due sorelle Tizia e Caia. Entrambe muoiono a 80 anni. Una per complicanze conseguenti a una devastante frattura multipla femorale e l’ altra per cancro della mammella. Orbene, vi sono dati epidemiologici che ci suggeriscono che Tizia e Caia abbiano avuto una produzione globale di estrogeni ovarici ed extra-ovarici durante tutto l’ arco della loro vita rispettivamente ridotta e aumentata.
      Quel che voglio dire è che – al di là del ruolo dell’ ambiente (e dei farmaci), su cui, tra l’ altro, possiamo agire – è seppellita dentro al nostro personale genoma la malattia che ci stroncherà.
      Non sempre tale malattia fatale si realizzerà, perché – ad esempio – uno sfortunato incidente stradale potrebbe uccidere colui che era predestinato ai 115 anni.
      Però, non esiste quasi malattia che non abbia un substrato con una componente genetica. E quindi dobbiamo – in primis – rassegnarci a questa visione che ci vede contenitori – fin dalla nascita – del fattore che ci porterà alla nostra morte.
      D’altra parte, però, possiamo – in secundis – cercare di ovviare. Ad esempio, per Tizia e Caia, almeno in teoria si sarebbe dovuto somministrare dosi distanziate, poco più che omeopatiche rispettivamente di estrogeno e di anti-estrogeno (ad es. tamoxifene) e forse avrebbero così raggiunto l’ età di 110-115 anni.

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