Brevetti, il falò delle novità

Secondo una stima approssimativa compiuta dal Financial Times, nella produzione di uno smartphone sono coinvolti circa 250.000 brevetti. Non c’è da stupirsi, dunque, se proprio in questo settore le principali aziende stiano conducendo una guerra globale nei tribunali di tutto il mondo: sono sotto accusa le società che copiano le invenzioni brevettate dalle società concorrenti, ma anche quelle che hanno brevettato invenzioni banali grazie a valutazioni troppo disinvolte degli esaminatori degli uffici brevetti. Un inventore, infatti, per ottenere un brevetto su un’invenzione deve dimostrarne l’originalità e l’utilità pratica: superato questo test, conquista il diritto di monopolio sullo sfruttamento dell’invenzione per i vent’anni seguenti, e può decidere di utilizzarla in proprio o di cederne il diritto d’uso in licenza. Le battaglie sui brevetti, peraltro, devono essere combattute Stato per Stato, affrontando ogni volta un diverso sistema giudiziario, con differenti gradi di giudizio e potenziali disparità di trattamento. Questa guerra dei brevetti comporta ormai costi sempre meno sostenibili per le aziende e per i consumatori, su cui vengono scaricate le spese.

Chi ne sta realmente approfittando sono gli studi legali specializzati in proprietà intellettuale, le cui parcelle si aggirano intorno ai 500 dollari l’ora (secondo le spese processuali dichiarate), e i cosiddetti patent troll, società che depositano brevetti su invenzioni che non hanno sviluppato né utilizzato, solo per portare davanti al giudice qualche colosso disposto a patteggiare rapidamente pur di non trovarsi bastoni tra le ruote. Gli stessi manager che guidano le maggiori aziende coinvolte iniziano a dubitare dell’utilità dell’odierno regime brevettuale, e denunciano la difficoltà di investire nello sviluppo di tecnologie innovative di fronte al rischio di rimanere impigliati in cause costose e dall’esito imprevedibile. Secondo il New York Times, due aziende come Google e Apple per la prima volta nel 2011 hanno speso più per la proprietà intellettuale di quanto abbiano investito in ricerca e sviluppo. In discussione, a questo punto, non c’è la strategia più o meno aggressiva di una singola azienda, ma un intero sistema di incentivo all’innovazione. Il numero dei brevetti è aumentato a ritmo esponenziale negli ultimi decenni. Negli Stati Uniti, che fino all’anno scorso ospitavano l’ufficio brevetti più attivo
al mondo, le domande di brevetto sono quadruplicate tra il 1985 e il 2005. La Cina, che oggi detiene il primato mondiale per richieste di brevetto, nel 1985 aveva un’attività brevettuale trascurabile. Anche in Giappone in perenne crisi economica e in Europa il ritmo di crescita è stato sostenuto. Gli studiosi del diritto di proprietà intellettuale non concordano nell’analisi di questa esplosione, se non su una tesi: l’aumento del numero dei brevetti non è legato ad una crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo che, nei paesi citati (tranne in Cina) e nello stesso periodo, sono rimasti all’incirca costanti in rapporto al prodotto interno lordo.

Sul resto, gli economisti si dividono. Sono state leggi come il Bayh-Dole Act (che nel 1980 permise alle università statunitensi di depositare brevetti su ricerche finanziate dallo Stato) a stimolare l’aumento? Oppure è il risultato di una gestione dell’attività di ricerca nel settore privato improntata a princìpi più manageriali e competitivi? O ancora il fenomeno è dovuto al boom di settori particolari, come le biotecnologie e l’informatica, in cui il confine tra ricerca di base e applicata è più labile rispetto ad altre discipline?

I dati empirici non danno risposte definitive. La bolla brevettuale inizia a gonfiarsi prima del Bayh-Dole Act. Gli stessi manager, interpellati in una celebre indagine dell’Università di Stanford, attribuiscono uno scarso ruolo ai brevetti nella competitività delle proprie aziende. Biotecnologie e informatica sono certo settori trainanti, ma in fondo rappresentano solo un quinto dell’incremento di brevetti registrato negli ultimi anni.

Altri analisti invece puntano il dito sul processo attraverso cui la proprietà intellettuale sulle invenzioni viene attribuita, difesa, dibattuta ed eventualmente cancellata. Gli uffici brevetti svolgono solo parzialmente il compito di selezione delle invenzioni realmente meritevoli di tutela brevettuale. La grande quantità di domande di brevetto che pervengono agli esaminatori supera la loro capacità di filtrare le invenzioni sprovviste di originalità o sufficiente attività inventiva.

Chi valuta una domanda di brevetto dovrebbe accertarsi che l’invenzione descritta non sia già stata realizzata da altri, o comunque divulgata in ogni altra forma. Il numero di fonti da consultare è virtualmente infinito: gli archivi degli stessi uffici brevetti e la letteratura tecnico-scientifica sono quelle più utilizzate, ma il brevetto può essere negato anche se un’invenzione è nell’uso comune senza essere stata descritta in una pubblicazione ufficiale. Inoltre, l’esaminatore deve accertarsi che l’invenzione rappresenti davvero un avanzamento rispetto ai metodi già consolidati per raggiungere lo stesso obiettivo. Infine, verificare che la descrizione dell’invenzione sia davvero esaustiva, cioè metta un lettore sufficientemente esperto in condizione di poter riprodurre l’invenzione. È un lavoro improbo, nei tempi ristretti a disposizione. Nell’ufficio brevetti americano, ogni domanda viene esaminata in media per meno di venti ore, in quello europeo di Monaco di Baviera gli esaminatori hanno solo dieci ore in più. Negli Stati Uniti giace inevaso oltre un milione di domande, mezzo milione in Giappone e 370.000 in Europa. Il tempo necessario per ottenere un brevetto si aggira intorno ai tre anni, e l’ufficio brevetto italiano è quello che più di tutti ha peggiorato la sua produttività tra i paesi che fanno parte dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale: tra il 2000 e il 2009 l’attesa per il verdetto è più che raddoppiata. Nei paesi emergenti le cose non vanno molto meglio: in Cina, un esaminatore deve valutare annualmente novanta domande in media, ma in India questo numero sale a 214 (circa una al giorno).

Le conseguenze di questo peggioramento possono anche avere un pesante impatto sociale. Il fenomeno della
biopirateria, ad esempio, si è notevolmente espanso soprattutto negli anni Novanta: frequentemente, infatti, aziende multinazionali attive nel settore chimico-farmaceutico o agro-alimentare hanno brevettato l’applicazione industriale di conoscenze informali radicate da secoli nel patrimonio culturale contadino di paesi del sud del mondo. Si tratta di un metodo semplice di ottenere brevetti di valore: basta tradurre in un linguaggio tecnico-scientifico le proprietà benefiche di una pianta o di un alimento la cui utilità è nota pur senza una conoscenza dettagliata dei meccanismi biochimici che ne stanno alla base. Gli esaminatori non hanno una dettagliata conoscenza di culture tradizionali lontane per utilizzarle come termine di confronto, dunque tali domande di brevetto vengono accettate con disinvoltura. Capita così che alimenti o sementi utilizzati comunemente in paesi come India, Brasile o Sudafrica siano improvvisamente privatizzati e che la loro disponibilità venga drasticamente ridotta.

L’eccesso del carico di lavoro che ricade sugli uffici brevetti instaura un circolo vizioso difficilmente arrestabile: l’esame approssimativo genera approvazioni più facili, cosicché le aziende sono incentivate a presentare domande con maggiore probabilità di successo, aumentando così ulteriormente il numero di domande pendenti. L’esame della validità di un brevetto, di conseguenza, si sposta dagli uffici brevetti ai tribunali: è in quella sede, come abbiamo visto nel caso degli smartphone, che durante le controversie legali i brevetti sono esaminati in profondità per valutarne la legittimità. Questo slittamento non è meramente tecnico: per difendersi in tribunale occorrono risorse finanziarie alla portata di poche aziende, a tutto vantaggio dei soggetti economici più forti. Negli Stati Uniti, questa svolta è stata facilitata, più che contrastata, dalle riforme introdotte negli ultimi decenni. Nel 1982, è stata istituita una corte federale unica per valutare i ricorsi in materia di proprietà intellettuale, che prima dovevano indirizzarsi ai tribunali dei singoli Stati. Per molti, questo provvedimento ha giocato un ruolo importante nell’aumento delle domande di brevetto negli USA. E, dunque, all’ingorgo attuale.

L’Unione Europea si appresta a inseguire gli Stati Uniti sulla stessa strada. Nel mese di dicembre, infatti, il Parlamento europeo ha approvato la creazione di una Corte Europea dei Brevetti. In questo modo, si completa l’unificazione del sistema brevettuale continentale. Sin dalla Convenzione del 1973, infatti, è possibile presentare un’unica domanda a livello europeo, che una volta approvata dà diritto a un brevetto riconosciuto dai singoli paesi. Questi ultimi, però, hanno mantenuto un sistema brevettuale nazionale, che impone all’inventore di adempiere, in ogni singolo Stato, il pagamento delle tasse annuali e la difesa da eventuali ricorsi avversi. La Corte Europea unifica proprio la fase della controversia legale, diminuendo le spese necessarie per cause che oggi si ripetono in fotocopia in tutti i principali Stati. L’Italia, con la Spagna, è stato uno dei paesi contrari a questo trattato. L’opposizione verteva però su un aspetto assai provinciale, la difesa della lingua italiana nelle domande di brevetto. L’Italia ha perso così un’occasione preziosa: non quella di assecondare passivamente il processo europeo, quanto di metterlo in discussione sulla base di un dibattito internazionale di ampio respiro, che rischia anch’esso di giungere dalle nostre parti con decenni di ritardo.

Credits immagine: stans_pat_pix/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato con il titolo “Il falò delle novità” sul numero di febbraio 2013 di Sapere. Ecco come acquistare una copia della rivista o abbonarsi on line.

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