Tutto il corpo umano su un chip per testare nuovi farmaci

corpo umano su un chip
Credit: Wyss Institute at Harvard University

Un corpo umano miniaturizzato, con i suoi organi principali riprodotti su un chip non più grande di una memoria telefonica e perfusi da un liquido simile al nostro sangue: non è fantascienza, ma un vero progetto di ricerca. Una sfida che Donald Ingber, pioniere nel campo dell’ingegneria biomedica, ha raccolto nel 2011, quando ancora un risultato del genere era considerato praticamente impossibile da raggiungere. Ma la sua squadra al Wyss Institute dell’Università di Harvard è riuscita in pochi anni a trasformare il sogno in realtà. Due recenti articoli pubblicati su Nature Biomedical Engineering dimostrano non solo che è possibile collegare fino a 10 organi su chip in un unico sistema, ma anche che questo approccio sarebbe in grado di predire il comportamento di un farmaco e la sua tossicità nel corpo umano in scala reale. E anche se gli organi su chip non possono sostituire completamente la sperimentazione animale, tuttavia, rappresenteranno in molti casi un’alternativa. La speranza è quella di ridurre sempre più i test sugli animali e ottenere risultati altrettanto o addirittura più affidabili.

Nel 2010 il primo organo su chip

Per ottenere i primi prototipi di corpo umano su chip, i ricercatori sono partiti da lontano. Il primo passo è stato quello di ricreare versioni miniaturizzate dei singoli organi. Anche da questo punto di vista, Ingber è stato un pioniere: risale al 2010 il suo primo polmone su chip, che non solo respira regolarmente, ma è stato addirittura affetto da un edema dopo trattamento con un noto chemioterapico (effetto collaterale che si verifica anche in vivo). Il chip ha le dimensioni di una memory card, di quelle che si usano per i cellulari, ed è composto da due minuscoli canali, separati da una membrana porosa e immersi in un liquido nutritivo: un canale contiene le cellule dell’organo di interesse, l’altro le cellule endoteliali dei vasi sanguigni. Grazie alla membrana, i due compartimenti comunicano tra loro e scambiano molecole, nutrienti e fattori di crescita.

Obiettivo Homo chippiens

Ma gli organi su chip da soli non bastano: ad esempio non riescono a predire come si comporterà un medicinale all’interno del corpo umano, che è composto da più organi collegati tra loro. Un farmaco, infatti, non interagisce solo con l’organo bersaglio, ma viene anche metabolizzato dal fegato, assorbito dall’intestino, escreto dai reni, e può avere effetti collaterali sistemici. Ecco perché la ricerca biomedica non può fare a meno del modello animale: nessun metodo alternativo riesce a simulare altrettanto efficacemente quello che accade nel corpo dei pazienti.

È anche per questo che la ricerca sui chip riscuote tanto successo, soprattutto ora che è prossima a realizzare quello che nel 2015 era stato simpaticamente definito da Nature come Homo chippiens.  Il passo che i ricercatori del Wyss Institute si stanno preparando a compiere è quello che li porterà dagli organi-su-chip al corpo-umano-su-chip. La sfida era stata lanciata nel 2012 dal DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), che aveva messo a disposizione un finanziamento per realizzare un sistema multiorgano che ricapitolasse la struttura di un organismo umano e fosse anche in grado di predire il comportamento dei farmaci.

Il corpo umano su un chip

Detto, fatto: il gruppo di bioingegneri guidato da Donald Ingber ha progettato uno strumento chiamato “Interrogator”, che riesce a collegare i canali vascolari di 10 chip perfusi con lo stesso sostituto artificiale del sangue.

Credit: Wyss Institute at Harvard University

Due sono gli studi pubblicati su Nature Biomedical Engineering. Nel primo, i ricercatori hanno dimostrato che il loro strumento può supportare fino a 8 diversi organi su chip (intestino, fegato, rene, cuore, polmone, pelle e barriera emato-encefalica), che rimangono vitali e conservano le loro funzioni per oltre 3 settimane. Nel secondo studio hanno usato delle configurazioni più semplici, a 3 organi, per monitorare gli effetti dell’aggiunta di un farmaco al sistema. I risultati sono stati soddisfacenti: le due configurazioni intestino-fegato-rene e fegato-rene-midollo osseo hanno riprodotto fedelmente quello che accade nell’organismo quando vengono somministrati nicotina o cisplatino (un chemioterapico), rispettivamente. Ma soprattutto, tramite un modello computerizzato i ricercatori sono stati in grado di trasporre i loro risultati dalla scala microscopica a quella reale del corpo umano, e di predire i movimenti dei farmaci effettivamente osservati nei trial clinici nei pazienti.

Più chip, meno cavie

Il corpo umano su chip, insomma, appare oggi molto più vicino di quando nel 2012 il DARPA presentò la sua proposta di finanziamento. E benché all’interno della comunità scientifica la maggioranza degli scienziati si schieri a favore dell’insostituibilità della sperimentazione animale, i sistemi multiorgano su chip potrebbero rappresentare un metodo complementare e in alcuni casi addirittura più predittivo del modello animale, poiché i farmaci verrebbero testati direttamente su “organi” umani. “Speriamo che i nostri risultati possano suscitare un interesse ancora maggiore da parte dell’industria farmaceutica – ha dichiarato Ingber – in modo che i test sugli animali possano essere progressivamente ridotti nel tempo “.

Riferimenti: Nature Biomedical Engineering

Foto: Wyss Institute at Harvard University

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