Sofferenza, speranza, pazienza… sono dense e significative le parole delle donne e degli uomini che in “Da qui in poi” (UTET 2016, pp.112, 15,00 Euro) raccontano la convivenza con la malattia. Mettere nero su bianco sentimenti ed emozioni tanto difficili da esprimere aiuta così i pazienti a prendere coscienza delle difficoltà superate e di quelle ancora da superare. E’ una “cura delle parole”: parlando di sé i malati diventano persone davanti ai loro stessi occhi, e imparano a non vedersi soltanto come contenitori di terapie: si distaccano in parte dalla sofferenza, diventano protagonisti e assumono una individualità che comprende anche la malattia che li accompagna quotidianamente.
Motivo comune di tutti i racconti è dunque la voglia di andare avanti, la consapevolezza e l’orgoglio di essere vivi nonostante tutto, la sensazione di poter continuare la lotta contro il male e la speranza di vincerla. Ma è comune anche l’angoscia davanti alla diagnosi, e la domanda che resta sempre senza risposta: “perché proprio a me?”.
Fa parte della nostra cultura considerare la malattia come una punizione per colpe mai commesse. E’ difficile insomma accettarne la casualità, come se comunque, su una bilancia invisibile, si dovesse pareggiare con la propria sofferenza qualche male compiuto: “cosa ho fatto per meritarmi questo”. Ed è difficile non cercare una giustificazione, una causa delle proprie sofferenze. Eppure, nonostante l’angoscia di questo atteggiamento iniziale, la voglia di essere più forti del male prende spesso il sopravvento, in genere con l’aiuto dei medici e dei propri cari. Quando guarire comporta tempi lunghi e soluzioni incerte, si impara a convivere coraggiosamente con la malattia e la pesantezza delle terapie, si riesce a parlarne e a superare il timore di pronunciarne anche solo il nome. Si lotta e talvolta si vince, moralmente, anche se il corpo resta malato.
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