Divieto di forward

Andy Wharol diceva che tutti hanno diritto a un quarto d’ora di celebrità. Con Internet c’è chi lo ottiene a propria insaputa e pure suo malgrado. Provare a chiedere a Claire Swire, divenuta una celebrità telematica globale (senza affatto volerlo) dopo aver passato una notte d’amore con tale Bradley Chait, da Londra, di professione avvocato. Tutto inizia nel dicembre scorso, quando Chait pensa bene di “forwardare” a sei amici una e-mail in cui Claire esalta le sue prestazioni sessuali (ah! la vanità maschile). A loro volta gli amici inoltrano e, di e-mail in e-mail, le confessioni della povera Claire diventano oggetto di letture indiscrete per sconosciuti pruriginosi.

Ora, se tutto ciò fosse accaduto in Australia Chait potrebbe passare guai seri. Perché quello è il primo paese ad avere introdotto il cosiddetto il “reato di forward”, o di inoltro postale. D’ora in poi gli australiani che “gireranno” ad altri una e-mail con il testo di una canzone o il brano di un libro coperti da copyright, ma anche la confidenza di un amico o un pettegolezzo sul capoufficio rischiano una pena variabile da 60 mila dollari (oltre 120 milioni di lire) a cinque anni di carcere. E così, anche la “terra dei canguri” ha detto la propria in quella interminabile fila di sentenze e di leggi che stanno piovendo su Internet e che, secondo alcuni, finiranno con il cancellarne l’originale spirito di libertà.

Per il reato di forward, gli internauti del resto del mondo per ora possono dormire sonni tranquilli. Ma l’episodio suscita comunque qualche perplessità. Quanto è giusto limitare la libertà di navigazione? “Ciò che è illecito fuori dalla rete lo è anche dentro: non si può considerare il web una zona d’ombra dove tutto è concesso, altrimenti diventerebbe un’area a rischio per i più deboli e i meno tutelati”, afferma Giuseppe Corasaniti, docente di Diritto dei mezzi di comunicazione all’Università Luiss di Roma, “limitare la navigazione è ingiusto, ma le regole servono e devono essere razionali e condivise globalmente per la difesa di valori comuni”.

E qui sorge l’altro problema: l’applicazione di leggi nazionali a strutture internazionali come il web. Il cittadino italiano che ricevesse una e-mail inoltrata dall’Australia, deve sottostare alle leggi australiane o quelle italiane? E se a sua volta la inoltra a un australiano, sta commettendo un reato? Questo problema era già stato portato alla ribalta qualche tempo fa dal caso Yahoo!. Nel novembre del 2000 il giudice francese Jean-Jacques Gomez aveva ordinato al portale di filtrare l’accesso al proprio sito, escludendo i visitatori francesi. Tramite esso infatti i cittadini d’oltralpe potevano accedere a siti d’asta americani e acquistare souvenir di stampo nazista. L’America tutela la libertà di espressione anche per i neonazisti, eppure Yahoo! ha dovuto cedere e mettere al bando completo i contenuti dello scandalo. Secondo l’accusa, attraverso l’indirizzo IP (Internet protocoll), cioè il numero identificativo di ogni macchina in rete, Yahoo! poteva risalire tranquillamente al paese d’origine del navigatore.

Ma non è sempre così semplice. Per esempio, gli abbonati di America on line, anche quelli non statunitensi, sono tutti in possesso di un IP americano, e ciò li renderebbe immuni al divieto imposto. I meccanismi di filtraggio, quindi, con un po’ d’astuzia possono essere aggirati.Un cittadino francese potrebbe infatti utilizzare un collegamento da un altro paese confinante per acquistare oggetti nazisti, venendo tranquillamente meno alle leggi del proprio paese. Mancando leggi generali, quindi, ogni paese tenta di far rispettare le proprie. Ma in alcuni casi questo rischia di trasformarsi in censura bella e buona. Si pensi alla Cina, che vieta la connessione a siti dissidenti e istruisce squadre speciali per la caccia agli articoli giornalistici antigovernativi e anticomunisti. O all’Arabia Saudita, che dispone di un grosso sistema di filtraggio per controllare indirizzi e contenuti. E anche alle democrazie occidentali dove il tentativo di imbavagliare la rete è forte. In questo modo, anche chi non commette illeciti, vede limitata la propria libertà di navigazione.

“E’ ovvio che il governo autoritario adotti sistemi autoritari, ma questo è un problema locale e Internet si difende da sé”, continua Corasaniti, “la forza di Internet sta appunto nel non avere frontiere e nel sottoporre a critica globale un comportamento locale autoritario. La globalizzazione comporta l’accettazione di un minimo di convenzioni, se non altro per assicurare, come dice l’Onu, giustizia e diritti delle persone”. Sono in molti a invocare una regolamentazione unica e una deontologia comune che sembrano comunque un miraggio irraggiungibile, a causa delle forti diversità legislative dei paesi che ospitano siti Internet (cioè ormai praticamente tutti). E, come se non bastasse, “molte delle leggi esistenti che pretendono di regolare fenomeni globali finiscono per ingessare l’ordinamento statale, soprattutto perché chi esige regole non sa neppure di cosa parla” conclude Corasaniti, “molte leggi infatti servono a far felice qualche politico che vuole essere ricordato dai posteri e che usa Internet solo come vetrina. Chi non usa Internet ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, non ha diritto di regolarlo. La prima regola, in fondo, è proprio questa”.

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