Dolly e i suoi fratelli

Da qualche mese l’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa sull’argomento clonazione si è fatta via via più debole. Era poco più di un anno fa che, con titoli a tutta pagina, il mondo apprendeva della nascita di Dolly, prima pecora clonata da un animale adulto e non, come negli esperimenti precedenti, dalla cellula di un embrione. L’evento aveva sollevato un vero e proprio caso: prima di tutto etico-politico, con prese di posizione di tutti i “grandi” da Bill Clinton al Papa. E poi scientifico: sarà veramente il clone di un animale adulto? Non sarà che Dolly è nata da una cellula ancora indifferenziata che ha “inquinato” quelle adulte? Si riuscirà a ripetere l’esperimento? Questa settimana la rivista Nature pubblica una raffica di articoli che da un lato forniscono parecchie risposte alle domande sollevate dal caso Dolly, e dall’altro corrono il rischio di riaccendere tutti i riflettori, e le discussioni che ne conseguono, sul tema della clonazione.

Due sono i fatti di rilievo pubblicati dalla prestigiosa rivista inglese. Primo: Ryuzo Yanagimachi dell’Università delle Hawaii e i suoi colleghi giapponesi, britannici e italiani hanno utilizzato la stessa tecnica che generò Dolly per produrre più di venti topoline, tutte clonate da cellule di esemplari adulti. Secondo: i test effettuati sul Dna di Dolly dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio scientifico che la pecora viene proprio da una cellula di tessuto mammario prelevata da un animale adulto e non da una cellula “pescata” per errore.

Che Yanagimachi e il suo team siano riusciti ad applicare lo stesso procedimento di Ian Wilmut, il “papà” di Dolly, su dei topolini anziché su animali più grandi è un risultato decisamente rilevante. Per generare un clone bisogna prelevare un ovulo e sostituire il suo nucleo originario con quello di una cellula-donatrice adulta. A questo punto l’embrione “artificiale” viene trapiantato in una femmina che porta a termine la gravidanza. Il problema è che le cellule seguono il ritmo di un proprio “orologio interno”. Perché la clonazione abbia successo bisogna che l’orologio dell’ovulo e quello del nucleo che vi viene trasferito siano perfettamente sincronizzati. Ma siccome i ritmi biologici di un topolino sono assai più rapidi di quelli degli animali più grandi, molti ricercatori ritenevano che non ci sarebbe stato abbastanza tempo per effettuare tutte le “manipolazioni” necessarie. Invece Yanagimachi ha avuto successo: egli ha ottenuto una ventina di cuccioli in buona salute a partire da diversi tipi di cellule adulte. Ora alcuni di questi cloni hanno già dei figli e addirittura dei nipoti. Ma non è finita. Yanagimachi ha prodotto anche otto “cloni di cloni”, prelevando cioè il nucleo da impiantare nell’ovulo da un esemplare a sua volta clonato.

D’altra parte riuscire a clonare dei topi apre nuove e interessanti prospettive sperimentali. I biologi, infatti, conoscono molto bene i loro meccanismi genetici, queste bestiole hanno un periodo di gestazione molto breve e i loro embrioni sono più facili da manipolare. Così ora i ricercatori potranno concentarsi più facilmente su alcune questioni che rimangono ancora aperte. Per esempio: gli esperimenti dimostrano che alcune cellule adulte si possono clonare, mentre altre no. Si tratta di un problema tecnico o piuttosto di una questione biologica? Come mai il tasso di successo della clonazione rimane piuttosto basso, perché, cioè, nascono pochi cuccioli rispetto al numero di ovuli impiantati nelle madri-ospite? Inoltre gli esperimenti potrebbero permettere di comprendere ancora meglio i meccanismi e la sequenza con cui i vari geni vengono attivati durante lo sviluppo dell’embrione e del feto.

Naturalmente perfezionare e affinare le tecniche della clonazione lavorando sui topi, permetterà poi di applicarle meglio anche ai grandi animali da allevamento, come pecore o mucche. E qui il discorso si fa interessante dal punto di vista economico. Infatti è possibile inserire nel Dna di questi animali alcune sequenze “esterne” in grado di sintetizzare delle proteine utili all’uomo (per esempio nella produzione di alcuni farmaci). Ma oggi ottenere un “buon esemplare produttore” è piuttosto complicato e la produzione di queste proteine è lenta e costosa. La faccenda cambierebbe se fosse possibile, una volta ottenuto un buon produttore, “fotocopiarlo” clonando all’infinito le sue cellule.

Ma non è tutto. Nature ha affidato il commento delle notizie provenienti dalle Hawaii a Davor Solter, biologo dello sviluppo al Max Planck Institut di Friburgo (Germania). E senza troppi giri di parole il ricercatore afferma che prima o poi bisognerà anche affrontare il problema di se, come e quando considerare la clonazione di esseri umani. Scrive testualmente Solter: “Questo lavoro potrebbe essere l’ultimo (o almeno il penultimo, dato che la prima clonazione di un essere umano probabilmente farà sollevare più di qualche sopracciglio) a scatenare la frenesia dei media”, poi “una volta che le teste pensanti e le commissioni presidenziali avranno espresso le loro opinioni, potremo provare a fissare alcuni obiettivi scientifici a breve e lungo termine”. Certo, se questa è l’opinione diffusa nella comunità scientifica, da “frenetici giornalisti” ci permettiamo di sollevare qualche dubbio.

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