Categorie: Fisica e Matematica

Ecco come vincere alla morra cinese

Il sasso spezza le forbici. Le forbici tagliano la carta. La carta avvolge il sasso. Sono le uniche tre regole da tenere a mente per giocare alla morra cinese. Un passatempo che, nonostante l’estrema semplicità, ha appassionato a lungo matematici e teorici dei giochi in cerca della strategia ideale per vincere. Da un punto di vista strettamente probabilistico, naturalmente, c’è poco da dire: la tattica matematicamente più solida sarebbe quella di scegliere completamente a caso. Dal momento che il gioco prevede tre esiti – sconfitta, pareggio e vittoria –, che ogni mossa è abbinata a una contromossa vincente e a una perdente e che non è importante con quale “figura” si vince, la logica suggerirebbe di scegliere sasso, carta e forbici rispettivamente un terzo, un terzo e un terzo delle volte. È il cosiddetto equilibrio di Nash del gioco.

Ma gli esseri umani non sono computer. E anche la psicologia dei giocatori ha un ruolo importante, almeno quanto la matematica. È quanto ha appena scoperto il matematico cinese Zhijian Wang, della Zhejiang University: i vincitori tendono a continuare con la stessa scelta, mentre chi perde è portato a cambiare strategia seguendo la sequenza sasso-carta-forbici, secondo uno schema ripetuto che Wang chiama “flusso ciclico persistente”. Ecco come funziona: supponiamo che sia il giocatore A che il giocatore B inizino a giocare scegliendo strategie casuali. Se A tira sasso e B tira carta, A perde. Nel round successivo, A può ipotizzare che B tirerà di nuovo carta (“i vincitori tendono a perseverare”, dice Wang) e quindi vincerà tirando forbici. Ancora più tardi, A può ipotizzare che B, avendo perso, scelga la strategia successiva nella sequenza – cioè forbici – e tirerà sasso per vincere ancora. Et voilà.

Per scoprirlo, Wang ha reclutato 72 studenti e li ha divisi in 12 gruppi da 6 ciascuno, facendo loro giocare 300 partite di morra cinese l’uno contro l’altro. Per aggiungere un pizzico di agonismo alla competizione, lo scienziato ha messo in palio dei piccoli premi in denaro per i vincitori. Esaminando i risultati, Wang ha notato la tendenza alla ripetizione da parte dei vincitori e quella al cambio da parte dei perdenti, secondo dei pattern piuttosto regolari e ripetuti – la cosiddetta strategia win-stay, lose-shift: “Si tratta di un modello già noto in teoria dei giochi, la risposta condizionale”, spiega Wang, “che però non era mai stata osservata finora nel gioco della morra cinese, probabilmente perché gli esperimenti precedenti avevano analizzato solo campioni molto piccoli”.

D’altronde, senza nulla togliere a Wang e Nash, Edgar Allan Poe aveva detto più o meno la stessa cosa parecchio tempo prima. Da La lettera rubata, nella traduzione di Rodolfo Arbib del 1885:

«Un bambino d’otto anni, ch’io ho conosciuto, formava l’ammirazione universale per la sua infallibilità al giuoco di pari e dispari. È un giuoco semplice, che si fa con delle palline. Uno dei giuocatori ne tiene in mano un certo numero, e domanda all’altro: Pari o dispari? Se questi indovina guadagna una pallottola: se no, la perde. Il bambino di cui parlo guadagnava tutte le palline della scuola. Naturalmente aveva un modo di divinazione che consisteva nella semplice osservazione ed apprezzazione della scaltrezza dei suoi avversari. Infatti, supponiamo che il suo avversario sia un perfetto bietolone, ed alzando la sua mano chiusa, gli domandi: Pari o dispari? Il nostro scolaretto risponde: Dispari, ed ha perduto. Ma la seconda volta vince, perché pensa fra sé: Questo sempliciotto la prima volta aveva messo pari, e per la seconda tutta la sua astuzia non arriva che a fargli metter dispari; allora dirò: dispari. Dice dispari e vince. Ma invece, con un avversario un po’ meno semplice, avrebbe pensato: Costui, che m’ha sentito dir dispari la prima volta, quest’altra si proporrà – è la prima idea che gli s’affaccerà alla mente – una semplice variazione da pari a dispari, come ha fatto quell’altro sempliciotto; ma una seconda riflessione gli dirà che quel cambiamento lì è troppo semplice, e finalmente si deciderà a metter pari come la prima volta. Io dunque dirò pari. Dice pari e vince. Ora questo modo di ragionamento del nostro piccino, che i suoi compagni chiamano fortuna, che cos’è, in ultima analisi?

È semplicemente, risposi, un’identificazione dell’intelletto del nostro ragionatore con quello del suo avversario.

Precisamente, disse Dupin; e quand’io domandai a quel bambino come faceva per ottenere quella perfetta identificazione che formava tutto il suo successo, mi fece questa risposta: Quando voglio sapere fino a qual punto uno è astuto o stupido, fino a qual punto è buono o cattivo, o quali sono attualmente i suoi pensieri, cerco di comporre il mio viso come il suo, di dargli la stessa espressione, per quanto mi sia possibile, e così aspetto per sapere quali pensieri o quali sentimenti nasceranno nella mia mente o nel mio cuore per corrispondere alla mia fisionomia.

Ecco una risposta che vale assai più di tutta la profondità filosofica che s’attribuisce a La Rochefoucauld, a La Bruyere, a Machiavelli e a Campanella».

Riferimenti: ArXiv:1301.3238v3
Credits immagine: Wikipedia

Sandro Iannaccone

Giornalista a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. È laureato in fisica teorica e collabora con le testate La Repubblica, Wired, L’Espresso, D-La Repubblica.

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