Gli afgani non hanno fiducia nelle truppe internazionali. Se li incontri per le strade di Herat o di Farah e fai le domande giuste li sentirai lamentarsi che non si sentono sicuri contro la minaccia talebana, che la comunità internazionale non li coinvolge abbastanza e non si preoccupa dello sviluppo economico e della ricostruzione. È quello che ha fatto il ricercatore e giornalista freelance Giuliano Battiston: è andato in giro per le province dell’Afghanistan a parlare con la popolazione civile, e quello che ne è uscito fuori è la ricerca “Le truppe straniere agli occhi degli afghani: percezioni, opinioni e rumors a Herat, Farah e Badghis”. Promossa da Intersos e presentata ieri a Roma, l’inchiesta offre per la prima volta il punto di vista degli afgani sulla presenza delle truppe straniere nel loro paese.
Battiston ha centrato la sua ricerca in tre province – Herat, Farah e Badghis appunto – che si trovano nell’area del comando regionale occidentale Isaf-Nato sotto responsabilità italiana, raccogliendo le testimonianze di 72 interlocutori diversi: governatori, commercianti, autorità tradizionali (Shura), insegnanti, giornalisti, religiosi, imprenditori, funzionari governativi, operatori sociali e sindacali. “Un campione non molto esteso ma variegato e rappresentativo di sentimenti diffusi anche nel resto dell’Afghanistan”, ha precisato il giornalista. “Si tratta di uno strumento utile che fornisce indicazioni a chi ha il compito istituzionale di delineare il contributo italiano alla soluzione del conflitto”.
Il dato più evidente emerso dal lavoro è lo scollamento tra le dichiarazioni delle cancellerie occidentali, che sostengono che le forze Isaf-Nato siano riuscite in buona parte a stabilizzare il paese, e quelle degli afgani, secondo i quali la comunità internazionale ha fallito nel garantire la sicurezza. “Nel 2004 i Talebani erano circa 400. Nel 2009, 25.000. Oggi possono contare su 30.000 combattenti. La comunità internazionale dovrebbe cominciare a chiedersi perché i ribelli aumentano invece di diminuire”, afferma M. Akram Azimi, docente all’Università Ghargistan di Farah. Gli afgani non temono solo per la loro incolumità fisica ma anche per l’eccessivo squilibrio tra i fondi destinati alle operazioni militari e quelli per lo sviluppo e la ricostruzione: “Oltre ad un’efficace strategia di contro-terrorismo, servono opportunità di lavoro, senza le quali i Talebani sono destinati a crescere”, è la testimonianza di Rahman Salahi, capo Shura dei professionisti di Herat.
Altre critiche alle forze internazionali riguardano la scarsa considerazione per le conseguenze delle loro operazioni sui civili, l’uso indiscriminato dei bombardamenti aerei e dei raid notturni, la violazione degli spazi domestici. Tutte azioni che agli afgani appaiono immuni dalla legge: “In caso siano vittime di un incidente, gli afgani non hanno alcuno strumento legale per chiedere giustizia, mentre la protezione dei civili dovrebbe essere una priorità”, dice Abdul Qader Rahimi, dell’Afghanistan Independent Human Rigths Commission, Herat.
Anche le attività integrate civili-militari svolte dai Prt (Provincial Reconstruction Teams) hanno ricevuto diverse critiche. Molti intervistati lamentano la poca trasparenza nella gestione dei progetti, la confusione tra gli obiettivi della sicurezza e quelli della ricostruzione e contestano il fatto che ai militari siano assegnati compiti civili: “Quando chiediamo più sicurezza, i militari ci dicono di essere qui per la ricostruzione. Quando chiediamo la ricostruzione, ci dicono di essere qui per la sicurezza. Alla fine, non garantiscono nessuna delle due”, spiega Farid Ehsas, esponente della società civile di Farah. A preoccupare è poi la percezione di quanto in fretta sfiducia e insicurezza si traducono in diffidenza e sospetto. Secondo molti afgani intervistati, infatti, i contingenti Isaf-Nato sono in Afghanistan per promuovere gli obiettivi strategici dei rispettivi paesi piuttosto che per garantire il benessere della popolazione.
Nonostante tutto , la maggior parte degli intervistati ritiene che debbano restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014, con una nuova e più efficace strategia. I motivi sono tanti: l’instabilità del quadro politico interno, la scarsa fiducia nei confronti della leadership locale, la convinzione che le truppe straniere siano un deterrente all’affermazione dei Talebani più efficace dell’esercito locale e poi il timore che il vuoto post-ritiro possa essere occupato dalle potenze confinanti, come Iran e Pakistan, e che con le truppe vadano via anche gli aiuti finanziari di cui il paese ha bisogno in questa delicata fase di transizione.
Gli afgani, conclude Battiston, chiedono di poter riavere la sovranità nella gestione del loro paese e il sostegno della comunità internazionale nella ricostruzione e nella cooperazione civile anche dopo il ritiro dei militari: “Qualsiasi intervento che non tenga conto delle opinioni degli afgani è destinato ad essere fragile e poco duraturo”.
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