Gocce di pioggia precambriana

Anche l’acqua può diventare un fossile, e dare indicazioni preziose sul passato del pianeta. Lo possono testimoniare gli strati di ceneri vulcaniche trovati in Sud Africa da ricercatori dell’Università di Washington, Seattle (Usa), “crivellati” da una pioggia piovuta ben 2,7 miliardi di anni fa, quando la roccia era ancora un tappeto melmoso. Ma questa volta l’interesse va oltre l’accuratezza con cui la precipitazione è stata immortalata, poiché la forma dei fori provocati dall’impatto col terreno ha permesso di risalire alla densità della paleoatmosfera – quasi doppia rispetto a quella attuale – e di ipotizzare la sua composizione chimica. Lo studio è pubblicato su Nature.

Dimostrando che l’atmosfera del precambriano era due volte più concentrata rispetto all’odierna, il nuovo studio smentisce innanzitutto le stime tradizionali, che la davano molto più densa. Per comprendere perché molti autori abbiano erroneamente equiparato la Terra primordiale a una sorta di camera iperbarica, è necessario far cenno al cosiddetto “paradosso del sole debole”, su cui si sono arrovellati astrofisici e geologi. Si sa che attorno a 3 miliardi di anni fa il Sole era più freddo, tanto che la radiazione raccolta dalla Terra rappresentava l’85 per cento di quella attuale. A causa di questa fiacchezza, il calore della nostra stella non sarebbe stato in grado neanche di portare il ghiaccio a fusione. Ed ecco il paradosso: diversi dati dimostrano, per quel tempo, la presenza di acqua allo stato liquido e di un regime termico tutt’altro che glaciale.

Per risolvere la questione si era allora ricorsi all’atmosfera, e in particolare al suo contenuto in azoto: la pressione parziale di questo gas (da sempre il primo componente della miscela che respiriamo) sarebbe stata incredibilmente alta: 2,4 bar, contro gli 0,8 attuali. E solo a questi livelli l’azoto può agire come riscaldante “indiretto”, amplificando l’effetto serra dovuto alla CO2 (solitamente un gas marginale, anche in era industriale).

Le rocce sedimentarie trovate in Sud Africa dai ricercatori di Seattle, guidati da Sanjoy Som, mettono ora in discussione le vecchie ipotesi sui parametri dell’aria. La dimensione delle tracce di pioggia che vi sono impresse sono infatti compatibili con una pressione atmosferica al massimo due volte superiore a quella attuale. A questa conclusione si è giunti partendo dal presupposto che la velocità finale di una goccia di pioggia è inversamente proporzione alla densità del gas attraversato, visto che esso esercita un attrito su ogni corpo in caduta. Misurando poi, a varie pressioni, le impronte lasciate dalla pioggia su ceneri attuali (come quelle depositate da Eyjafjallajökull, il vulcano islandese che nel 2010 ha interrotto il traffico aereo sopra l’Europa), per gli scienziati è stato possibile quantificare la paleodensità atmosferica.

Sgombrato il campo da un’atmosfera troppo densa, ai ricercatori non è rimasto che scovare un meccanismo alternativo per mantenere il clima terrestre temperato anche in condizioni di sole debole. Il meccanismo potrebbe risiedere nell’emissione di gas serra più efficaci della CO2 (tra cui metano, propano e solfuro di carbonile), aventi cioè la capacità di trattenere la radiazione solare anche se molto rarefatti.

Riferimento: Nature: doi:10.1038/nature10890

Credit immagine: a Jaypeg21/ Flickr

1 commento

  1. Secondo me non erano nè la densità nè il tipo di gas presente i atmosfera. Era più semplicemente il suo spessore molto più elevato di quello di oggi e la forte presenza di “acqua”, ottima per l’effetto serra, che non era ancora caduta completamente a formare gli oceani attuali.

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