Il freeware ci salverà

    A quanto ammonta la spesa che dovranno sostenere i centri di ricerca, le imprese e la pubblica amministrazione per acquistare software di vario genere nel 1999? Si parla di cifre che si aggirano intorno ai 3.500 miliardi di lire. Una enormità per un paese come il nostro, fanalino di coda nella spesa tecnologica in Europa. Un italiano acquista annualmente prodotti informatici per poco più di 400 mila lire, cioè circa la metà di quello che spendono inglesi, francesi e tedeschi. Mentre solo 26 operatori su cento in Italia dispongono di un Personal computer, in Germania le stime corrispondono pressappoco al doppio.

    Partendo da questi dati preoccupanti, Angelo Raffaele Meo, direttore del Centro di studio per la elaborazione numerale dei segnali del Cnr (http://www.cnr.it/prototipo.html) di Torino, ha deciso di prendere l’iniziativa. E ha chiamato a raccolta gli esperti del settore, nel Convegno tenutosi il 23 febbraio nella sede del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma. Titolo: “Freeware e altre iniziative per il rilancio della tecnologia e dell’industria italiana dell’informazione”. Obiettivo dichiarato: dare il primo impulso a livello nazionale a favore del freeware.

    Ma cosa è il freeware? E perché si vede in esso l’unica forza capace di dare un colpo di timone alla rotta negativa dell’informatica italiana? Il termine non è altro che la contrazione di “free software”, cioè programma libero, prelevabile dall’immenso archivio del World Wide Web al solo costo della telefonata per il collegamento al provider, utilizzabile immediatamente senza pagare royalties. Non è tutto. Oltre al concetto di gratuito, la parola free integra anche quello di “open source”, ossia codice libero. Non solo l’utilizzo di questi programmi è gratuito, ma anche il loro codice, cioè la sequenza di istruzioni compilate dal programmatore per far eseguire al computer le varie operazioni, diventa disponibile attraverso Internet per essere modificato o espanso a seconda delle esigenze di altri programmatori. Questo ovviamente implica un’attività solidaristica tra gli sviluppatori: il lavoro di un individuo può essere fondamentale nella risoluzione di un problema altrui, e viceversa. In altre parole il freeware è il frutto della collaborazione di molti programmatori e viene continuamente sviluppato e migliorato dall’apporto di tutti, ovviamente con costi irrisori.

    “Il freeware – spiega Meo al nostro giornale – sembra dare nuovo vigore a quel sogno che nell’ultima metà del secolo ha unito coloro che vedevano nello sviluppo delle tecnologie dell’informazione l’unico elemento capace di ridurre il gap tra i paesi ricchi e quelli poveri”. Tutti protagonisti, quindi. Ognuno con la possibilità di intervenire, modificare e utilizzare software in modo paritetico. Ma è solo un’utopia sperare che l’open source software possa imporsi nella battaglia contro i Golia, i colossi americani dell’informatica?

    I segnali che provengono da più parti sembrano indicare che la lotta è meno impari di quanto si pensi. Quando il 5 ottobre 1991 Linus Torvald, allora studente dell’Università di Helsinki, rendeva disponibile gratuitamente il codice sorgente della prima versione ufficiale di Linux (http://www.gnu.ai.mit.edu/fsf/fsf.html) – sistema operativo da lui realizzato sulla falsariga di Unix – certamente non immaginava che dopo solo otto anni sarebbero stati cinque milioni gli utenti contenti di utilizzare il suo prodotto. E quanto la flessibilità – data dall’incredibile apporto di appassionati ed estimatori in tutto il mondo – ed economicità di Linux siano potenzialmente alternative ai sistemi operativi prodotti da Microsoft, basati su miliardari investimenti distribuiti tra ricerca e pubblicità, lo dimostra il recente interesse per il sistema operativo di Torvald di giganti come Ibm, Intel, Dell e Oracle. Grande successo riscuotono anche le iniziative della Free Software Foundation (http://www.gnu.ai.mit.edu/fsf/fsf.html), creata nel lontano 1983 da Richard Stallman, che ha disseminato la rete di utilissime applicazioni interamente basate sulla filosofia dell’open source code, da essa teorizzata nella General Public Licence (http://www.gnu.ai.mit.edu/copyleft/gpl.html).

    Speranze, proposte, obiettivi legati al freeware che quindi si moltiplicano. Egemonie intellettuali ed economiche che vengono rimesse in discussione. Ma la situazione italiana impone che davanti a questo fenomeno spontaneo si accostino mirati investimenti pubblici, che potrebbero rientrare tra i progetti finalizzati dal Cnr o nel programma nazionale promosso dal ministero per la Ricerca scientifica.

    “Per l’Italia investire nel freeware significherebbe sia ridurre sensibilmente l’attuale squilibrio nella bilancia commerciale in materia di software (risparmiando circa 1000 miliardi), sia porre un freno al flusso dei nostri laureandi in uscita verso altri paesi”, afferma Meo. A ulteriore conferma della validità del progetto presentato al convegno, arriva la decisione presa nel dicembre scorso dal governo del Messico, primo fra tutti nel favorire lo sviluppo di una cultura informatica avanzata nelle nuove generazioni, introducendo nelle scuole di ogni ordine e grado computer muniti di free software liberamente modificabile dagli studenti. “Non possiamo che augurarci – conclude Meo – che questo esempio sia seguito al più presto anche nel nostro paese”.

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