Il gigante della meccanica

Esiste una bella biografia di Taylor, scritta da G.K. Batchelor, in cui a un certo punto si afferma che “è generalmente riconosciuto che nella prima metà di questo secolo ci sono stati tre giganti nel campo della meccanica”: i tre giganti sono Theodore von Karman, Ludwig Prandtl e per l’appunto Taylor. E’ lecito sospettare che nessuno di questi nomi suoni familiare a chiunque non sia un cultore di meccanica o un esperto di storia della scienza: per la persona di media cultura, i grandi della scienza fisica del Novecento sono altri, e si chiamano Einstein, Bohr, Heisenberg o Fermi (e pochi altri). Ma è soprattutto altamente probabile che sollevi sconcerto il senso generale dell’affermazione, per cui sarebbe stato possibile nel corso di questo secolo essere dei “giganti” in “meccanica”. I campi della fisica in cui sono avvenute le grandi innovazioni conoscitive del Novecento sono, nell’immagine corrente, relatività e quanti, radioattività e fisica nucleare, particelle elementari, astrofisica e cosmologia, maser e laser e transistor e tutti quei capitoli della struttura della materia legati alle proprietà quantistiche del mondo microscopico: insomma, tutto quanto si è soliti contrapporre sotto l’etichetta di “fisica moderna” a quell’insieme di ormai consolidate conoscenze collettivamente designate come “fisica classica”. Di questa, la meccanica è considerata la parte insieme più nobile e più sterile: roba vecchia, definitivamente chiusa nel corso del secolo precedente e da esso consegnata al ruolo di utile strumento per le applicazioni: come si può essere dei “giganti” in una disciplina morta?

Il punto è che, lungi dall’essere una disciplina morta, la meccanica (o, per essere più precisi, quell’insieme di settori di ricerca che nel corso dei primi decenni del secolo vengono a costituire la “meccanica applicata”) si è rivelata un terreno estremamente fruttuoso di indagine scientifica. Messi a confronto con le necessità applicative, gli eleganti risultati formali della meccanica razionale ottocentesca (quella, per intendersi, dei corpi rigidi e dei fluidi perfetti) hanno mostrato i loro limiti, e si è imposta la necessità di una soddisfacente trattazione delle proprietà dei corpi reali (che non sono mai né rigidi né perfetti). E’ nata così, dall’intersezione di problemi che hanno le loro origini nell’ingegneria, nella matematica e nella fisica, una nuova disciplina la cui ragion d’essere può essere riassunta nell’obiettivo di fornire una consistente base teorica alla descrizione delle proprietà di una vastissima classe di fenomeni meccanici di grande rilevanza ai fini applicativi: si tratta in sostanza dello studio delle caratteristiche dei mezzi continui deformabili (questioni di elasticità, plasticità, resistenza allo stress e così via) e della dinamica dei fluidi viscosi (e qui si va dalla meteorologia ai problemi della stabilità del flusso in varie configurazioni alla grande incognita della turbolenza). La grandezza di Taylor sta nell’aver lasciato un’impronta inconfondibile, con i suoi contributi, in tutti questi campi di ricerca; ma è difficile spiegarla, data la natura molto esoterica e spesso poco appariscente della maggior parte di queste problematiche. Il nome di Taylor è associato, nella letteratura scientifica e nel gergo degli “addetti ai lavori”, a una quantità di fenomeni, modelli, proprietà: instabilità di Taylor-Couette, dispersione di Taylor, teorema di Taylor-Proudman, dislocazioni di Taylor, teoria di Taylor del trasporto di vorticità, instabilità di Rayleigh-Taylor, lunghezza di Taylor in turbolenza… La lista dà un’idea della pervasività della presenza di Taylor, ma suggerisce anche che si tratti di una varietà di cose difficili da raccontare semplicemente, anche a causa dell’assenza di una tradizione di divulgazione scientifica in questo tipo di questioni, per cui non si dispone di un collaudato e diffuso linguaggio elementare. L’impressione è corretta; per questo, nel seguito rinuncerò al tentativo di fornire un quadro completo dell’attività scientifica di Taylor, e, nel ripercorrere le tappe essenziali della sua biografia, concentrerò l’attenzione su un aspetto specifico dei suoi contributi alla dinamica dei fluidi, cioè la teoria della turbolenza. Nell’ambiente della dinamica dei fluidi ci si riferisce spesso con ammirazione, più ancora che ai risultati scientifici conseguiti da Taylor, a quello che viene definito lo “spirito”, o lo “stile” di Taylor: un insieme, difficile da definire, di caratteristiche tipiche del suo modo di concepire e condurre la ricerca. Inseguire gli sviluppi dei suoi studi sull’argomento che forse più di tutti lo ha tenuto occupato nel corso della sua attività scientifica può essere una maniera di arrivare a comprendere almeno qualche aspetto di questa sua peculiarità.

Geoffrey Ingram Taylor nacque nel 1886 nei pressi di Londra, e morì nel 1975 a Cambridge, città dove, a parte i numerosi viaggi per il mondo, trascorse la totalità della propria esistenza a partire dal 1905; in questo anno, dopo un primo periodo di studi scientifici a Londra all’University College School, Taylor ottenne una borsa di studio al Trinity College e si trasferì a Cambridge per restarvi per sempre. In famiglia, Taylor aveva illustri precedenti scientifici: suo nonno era George Boole, il matematico inventore della logica che porta oggi il suo nome, e la nonna, Mary Everest, era la figlia di Sir George Everest, uno dei fondatori della geodesia, che servì lungamente l’Impero britannico in India come direttore del servizio topografico (e in cui onore il Chomo Lungma, la montagna più alta della Terra, fu ribattezzata col nome che tutti oggi conoscono). Passione per la scienza e passione per l’avventura, ereditate attraverso queste ascendenze familiari, presero presto nel giovane Taylor una forma ben definita, orientandosi in modo spiccato verso il problema del moto dei fluidi e del moto nei fluidi: la curiosità per le questioni di idrodinamica e aerodinamica e l’amore per la navigazione saranno le due costanti della sua vita. Le due cose erano per Taylor strettamente legate: andare a vela con uno yacht di sedici metri dalla Scozia alle isole Lofoten, in ultima analisi, è un bell’esercizio di dinamica dei fluidi applicata. E il risultato scientifico di cui Taylor diceva di essere più fiero – scherzando solo in parte – è l’invenzione, nel 1933, di un modello completamente nuovo di ancora per imbarcazioni leggere, disegnato in modo tale da garantire una presa ottimale sul fondo. Si tratta dell’ancora C.Q.R. (quella che assomiglia al vomere di un aratro attaccato ad un braccio snodabile) e che a tutt’oggi è in dotazione alla maggior parte degli yacht per le sue insuperate caratteristiche di leggerezza e capacità di tenuta.

A Cambridge, Taylor studiò soprattutto matematica per un paio di anni, con docenti del calibro di Whitehead, Whittaker e Hardy, e quindi fisica, con Searle, Wilson (quello della camera a nebbia) e J. J. Thomson. Fu proprio quest’ultimo a suggerirgli l’argomento per il suo primo lavoro in fisica sperimentale, uno studio delle frange di interferenza prodotte da fasci luminosi di bassissima intensità alla ricerca di eventuali effetti dovuti alla struttura “granulare” della radiazione (nel 1909 l’ipotesi dei fotoni, o quanti di luce, cominciava a guadagnare credito). Questa ricerca (che diede esito negativo) fu l’unica incursione di Taylor sul terreno della “nuova” fisica; per tutto il resto della sua carriera si occupò solamente di questioni di fisica “classica”, nonostante vivesse al Cavendish Laboratory, uno dei luoghi in cui sono avvenuti alcuni degli sviluppi principali della fisica moderna, e lavorasse a stretto contatto di gomito con i protagonisti di quegli sviluppi, primo tra tutti Rutherford (in effetti, i due occupavano uffici contigui nei locali del laboratorio). I rapporti di Taylor con Rutherford e con gli altri fisici del Cavendish, in particolare Aston e Fowler, erano della massima cordialità, ma la fisica che teneva occupati i suoi colleghi non esercitava su di lui particolare potere di attrazione. Taylor amava i problemi stimolanti sul piano teorico ma suscettibili di applicazione immediata, e usava dire in età più avanzata di “non aver mai sentito il richiamo per una carriera in scienza pura”. In particolare era attratto da quella che si potrebbe definire una dimensione artigianale della ricerca, quella in cui era ancora possibile per una sola persona elaborare un modello teorico per comprendere il meccanismo di un fenomeno particolare, e costruirsi con le proprie mani l’apparato sperimentale per sottoporre a controllo empirico l’attendibilità del modello. In un periodo segnato in misura crescente dalla separazione tra l’attività teorica e quella sperimentale, Taylor ha sempre tenuto unite queste due facce del mestiere che erano per lui indissolubili, al punto di abbandonare più di una volta promettenti linee di ricerca quando le apparecchiature sperimentali si facevano troppo “pesanti” o quando l’aspetto teorico rischiava a suo modo di vedere di degenerare in pura elaborazione formale. In questo senso parlava di se stesso come di un “fisico classico”, anche se i suoi principali interlocutori erano, più che fisici, matematici applicati o ingegneri aeronautici. Diceva anche di essere uno “scienziato dilettante”; e se la parola “dilettante”, intesa come la negazione di “competente”, è quella meno indicata a proposito della qualità del lavoro scientifico di Taylor, pure dal punto di vista strettamente etimologico gli si attaglia a perfezione, perché non c’è dubbio che egli si dilettasse enormemente a fare quello che faceva. Un conoscente notò che Taylor era la miglior espressione vivente del detto secondo cui “il lavoro è molto più piacevole del piacere”.

L’interesse di Taylor per la turbolenza nacque nel 1912, quando gli fu assegnato dal Meteorological Office un incarico triennale di ricerca in meteorologia dinamica, retribuito grazie a una donazione di Sir Arthur Schuster, per introdurre metodi analitici e quantitativi in un campo ancora largamente dominato da tecniche puramente empiriche. Era un tipico terreno in cui Taylor poteva mettere a frutto la propria abilità di matematico misurandola su un problema di ovvio interesse applicativo, e che offriva la possibilità di effettuare un lavoro indipendente di ricerca sperimentale. Piuttosto che concentrare la sua attenzione sui modelli di circolazione generale dell’atmosfera, Taylor preferì lavorare sulle proprietà dei processi su piccola scala, e cominciò a interessarsi ai fenomeni di mescolamento e trasporto negli strati inferiori dell’atmosfera dovuti alle fluttuazioni turbolente della velocità. Nonostante l’attrezzatura primitiva dell’epoca, una serie di misurazioni da lui effettuate nel corso dell’anno gli permisero di giungere alla conclusione che (contrariamente a una convinzione diffusa) le variazioni irregolari di velocità del vento non mostravano alcuna particolare predilezione per una direzione piuttosto che per un’altra: la turbolenza atmosferica è fondamentalmente isotropica. I risultati di queste osservazioni furono rinforzati da quelli ottenuti durante una spedizione scientifica cui Taylor prese parte, come meteorologo, nella prima metà del 1913. A seguito del drammatico naufragio del Titanic, il governo inglese inviò una vecchia baleniera convertita in laboratorio galleggiante, la H.M.S. Scotia, in missione nell’Atlantico settentrionale per registrare e comunicare via radio la posizione degli iceberg. Taylor raccolse, durante la spedizione, una gran quantità di dati che confermarono le sue convinzioni circa le proprietà di isotropia delle fluttuazioni turbolente della velocità.

Nell’immediato, queste osservazioni non furono tradotte da Taylor in un modello teorico dell’agitazione turbolenta, anche se da alcuni lavori pubblicati in quegli anni si capisce che aveva già cominciato a formarsi un’immagine fisica qualitativa del fenomeno. Negli anni della guerra Taylor fu coinvolto insieme ad altri scienziati in varie ricerche legate soprattutto agli sviluppi della scienza aeronautica e alle sue applicazioni militari, soggiornando presso la Royal Aircraft Factory a Farnborough. L’aeronautica era nella sua fase pionieristica, e Taylor si considerava “felice di aver vissuto in un’epoca in cui gli aeroplani erano abbastanza semplici da permettere ad un dilettante ragionevolmente intelligente di apprezzarne il funzionamento meccanico”. Come ulteriore esempio della sua tipica curiosità avventurosa, approfittò della circostanza per prendere il brevetto di pilota.

Nel 1921 Taylor tornò sul problema della turbolenza pubblicando un breve ed elegante lavoro dal titolo “Diffusione da movimenti continui”, in cui il modello qualitativo elaborato nei suoi primi anni da meteorologo trovava una semplice ma efficace rappresentazione formale. L’idea base era quella di considerare la turbolenza come un campo di velocità variabili localmente in modo del tutto casuale, caratterizzato da un’agitazione media omogenea e isotropa, e di studiare le proprietà della diffusione dovuta a queste fluttuazioni irregolari adattando opportunamente le tecniche elaborate da K. Pearson per lo studio dei “cammini casuali”. Nella sua versione discreta, il problema era essenzialmente identico a quello del moto browniano, a proposito del quale già dal 1905 esisteva una trattazione teorica dovuta ad Einstein e successivamente raffinata da altri ricercatori. Come Taylor ammise candidamente più tardi, “all’epoca non ero a conoscenza del lavoro di Einstein”, e così egli fu costretto a reinventarsi autonomamente il formalismo necessario; il che fu probabilmente un bene perché, libero da riferimenti a modelli precostituiti, Taylor introdusse nella descrizione del processo di diffusione un ingrediente che non poteva essere trascurato nel passaggio dal problema discreto a quello continuo, cioè la presenza di correlazioni tra i valori di velocità in punti molto vicini nello spazio o nel tempo. In termini del coefficiente di correlazione gli fu possibile definire una scala, o “lunghezza caratteristica” della turbolenza, e mostrare che le proprietà osservate della diffusione in aria dovuta alle fluttuazioni irregolari di velocità erano spiegabili con un semplice modello in cui comparivano due sole quantità statisticamente rilevanti per la descrizione della turbolenza, la sua intensità media e la scala.

Ci sono due caratteristiche di questo lavoro che lo rendono molto tipicamente “tayloriano”. La prima è la sua quasi completa autonomia da ogni precedente risultato, un tratto indicativo dello stile di lavoro di Taylor, che preferiva, anche laddove avrebbe potuto limitarsi a trasferire alla propria ricerca i risultati già ottenuti da altri, ricostruirsi autonomamente il linguaggio formale adatto al problema che lo interessava. La seconda caratteristica è l’estrema semplicità della matematica utilizzata e il relativo disinteresse per le questioni di rigore formale. Il lavoro si chiude con l’ammissione che “non è stato fatto nessun tentativo di dimostrare la convergenza delle serie utilizzate”, perché “questi problemi possono essere esaminati vantaggiosamente da un matematico puro”. Taylor faceva ricorso agli strumenti formali per quel tanto che gli erano necessari a dare corpo alle sue intuizioni fisiche, ma rifuggiva dalle notazioni sofisticate e lasciava volentieri ad altri le preoccupazioni di carattere formale e il compito di riformulare la teoria in modo impeccabile sul piano del rigore matematico. Come gli fece osservare una volta un collega che in questo gli assomigliava, “Lei ed io siamo scienziati del tipo x,y,z, i giovani invece sono del tipo i,j,k”. Questo lato dello stile di Taylor presentava anche i suoi svantaggi; in vari casi furono altri a produrre eleganti estensioni e generalizzazioni delle sue intuizioni teoriche, da lui abbandonate a metà strada per non impelagarsi in una matematica eccessivamente sofisticata per i suoi gusti. D’altra parte, questa essenzialità del linguaggio utilizzato conferisce in genere ai lavori di Taylor un elevato grado di “leggibilità”, per cui le idee fisiche di fondo emergono chiaramente senza essere oscurate da un formalismo eccessivo, e ne fa degli autentici “classici”.

Nel 1923 la posizione di Taylor a Cambridge si stabilizzò in modo definitivo, grazie alla assegnazione da parte della Royal Society di una Research Professorship, istituzione tipicamente inglese che conferiva al suo titolare tutti i privilegi di un professore universitario senza però obbligarlo all’insegnamento (come commentò Rutherford, Taylor era così “pagato per non lavorare”). La condizione era quanto mai adatta a Taylor, che non amava particolarmente l’attività didattica e viveva esclusivamente per la ricerca: la leggenda narra che, quando la notizia della sua nuova posizione gli fu comunicata nel bel mezzo di una lezione che stava tenendo a una classe di matricole, lasciò il gesso sulla scrivania e uscì istantaneamente dall’aula. Oltre al suo stipendio, Taylor poteva usufruire di una dotazione annuale per spese di servizio che gli permise di impiegare un tecnico, Walter Thompson, e di costruire personalmente, con la sua assistenza, tutta l’apparecchiatura sperimentale di cui ebbe bisogno nel seguito della sua attività; si dice che nel corso della sua vita egli non abbia mai compilato una richiesta di finanziamento. Da allora si dedicò interamente alla ricerca su argomenti che era perfettamente libero di scegliere secondo l’inclinazione del momento, intervallando i periodi di creatività scientifica con lunghi viaggi e crociere, spesso in compagnia della moglie, Stephanie Ravenhill, sposata nel 1925: tra questi ultimi, degni di nota una avventurosa traversata del Borneo nel 1929, e la già menzionata navigazione del 1927 fino alle isole Lofoten sul suo yacht Frolic con un equipaggio di sole tre persone (lui, la moglie e un amico), per cui gli fu conferita la Challenge Cup del Royal Cruising Club. Più avanti negli anni, Taylor confessò di essere “più orgoglioso di questo riconoscimento che di ogni altro nella mia carriera”.

Quelli successivi alla fine della Prima guerra mondiale furono anni difficili per le relazioni scientifiche internazionali, eppure fu proprio in quel periodo che riuscì a prendere corpo un’organizzazione informale dei ricercatori coinvolti in problemi di meccanica applicata. Dopo una prima riunione ristretta a Innsbruck nel 1922, ideata da von Karman e portata a felice compimento grazie alla collaborazione di Tullio Levi-Civita, nel 1924 si costituì a Delft un International Committee for Applied Mechanics, e congressi internazionali cominciarono a svolgersi periodicamente a partire da quella data, con un crescendo di partecipazione numerica e rappresentanza di nazioni. Taylor fu fin dall’inizio uno dei rappresentanti della Gran Bretagna nel Committee, e prese regolarmente parte a tutti i successivi congressi. Questi erano articolati attorno a due grandi divisioni tematiche, teoria dell’elasticità e dinamica dei fluidi, e per ragioni non difficili da intuire (si era negli anni d’oro dello sviluppo dell’aviazione) il problema della turbolenza era tra quelli in posizione preminente nella seconda sezione. Nel corso degli anni Venti e all’inizio del decennio successivo furono elaborate da vari scienziati (in particolare i già menzionati Prandtl e von Karman) differenti versioni di quelle che vennero chiamate “teorie semiempiriche” della turbolenza, in cui veniva utilizzata l’analogia tra un fluido turbolento e un gas, importando nella descrizione del fluido idee e concetti mutuati dalla teoria cinetica. Si introduceva così, per esempio, una “lunghezza di mescolamento” che doveva riassumere, a livello della descrizione macroscopica della turbolenza, le stesse proprietà statistiche espresse dal cammino libero medio nella descrizione microscopica dei gas fornita dalla teoria cinetica. L’impossibilità di costruire un soddisfacente modello particellare per un fluido, analogo al modello cinetico di gas, rendeva tuttavia questi tentativi, oltre che approssimati, soggetti a una fondamentale limitatezza di ordine concettuale: le grandezze significative della teoria, non potendo essere ricavate da considerazioni di principio a partire da un modello fisico ben definito, venivano introdotte sulla base di stime ricavate dai dati empirici relativi allo specifico caso in esame (da qui il nome di teorie “semiempiriche”). Si era ancora a metà strada tra una adeguata formulazione teorica e il buon vecchio metodo del “taglia e aggiusta” dell’ingegneria idraulica. D’altronde, era fondamentalmente di problemi applicativi tipicamente ingegneristici che ci si preoccupava: “il grande problema della turbolenza sviluppata”, come lo definiva Prandtl, era quello di ottenere dalla teoria espressioni che dessero il valore degli sforzi tangenziali responsabili dei fenomeni di trasporto in un fluido che si muove con condizioni al contorno fissate, e della resistenza esercitata su un corpo immerso nel fluido. Si tentava di trovare un modo di introdurre nelle equazioni per il moto medio gli effetti di questi sforzi, e di capire in che modo essi influenzassero la forma del profilo di velocità in particolari configurazioni di flusso, con spiccate caratteristiche di disomogeneità e anisotropia. Era un modo di guardare alla turbolenza molto lontano da quello ideato da Taylor nei suoi lavori sulla turbolenza atmosferica e nel lavoro sulla diffusione, tutti centrati sul concetto di isotropia e di agitazione uniformemente distribuita, e in cui le condizioni ai bordi, che determinano in modo cruciale le particolarità degli specifici problemi di ingegneria idraulica o aerodinamica, sono del tutto trascurabili.

Taylor stesso aveva almeno momentaneamente abbandonato quella linea di ricerca. La difficoltà di ottenere dati sperimentali sufficientemente precisi per valutare adeguatamente le correlazioni tra componenti di velocità lo avevano indotto a delegare ai “matematici puri” l’ulteriore studio della questione. Fu in parte proprio grazie all’interazione con un “matematico puro” che Taylor riprese un interesse attivo per il problema: attraverso il contatto con Norbert Wiener, che stava formulando in quegli anni una teoria generale dei moti casuali e dell’analisi armonica, Taylor si impadronì, ritraducendola in un formalismo semplificato e adattato ai propri scopi, di una tecnica matematica che poteva permettergli di esprimere adeguatamente le relazioni che aveva cominciato a intuire in maniera qualitativa tra le proprietà macroscopiche di un campo di velocità turbolento (dimensioni dei vortici legate a differenti “scale” di lunghezza caratteristiche) e le grandezze statisticamente significative per la sua descrizione (intensità media e proprietà di correlazione). A stimolarlo definitivamente a riprendere a lavorare sulla turbolenza fu comunque decisivo il cambiamento intervenuto nei primi anni Trenta sul terreno delle possibilità sperimentali: con il perfezionamento dell’anemometro a filo caldo diventava possibile misurare accuratamente proprio quelle grandezze (le correlazioni tra velocità a punti diversi) che erano centrali nella sua teoria. Il risultato di questa confluenza di inventiva teorica e sollecitazioni empiriche fu un fondamentale lavoro del 1935, “Teoria statistica della turbolenza”, e un successivo contributo del 1938 sullo “Spettro della turbolenza”, in cui Taylor riuscì, grazie all’utilizzo delle tecniche dell’analisi di Fourier apprese dallo studio dei lavori di Wiener, a dare forma a un modo di pensare la turbolenza radicalmente diverso da quello che aveva dominato la costruzione delle varie teorie semiempiriche fino a quel momento, dando rilievo centrale alla nozione di “scala” (o meglio, alla presenza di varie “scale” caratteristiche analizzabili formalmente in termini di componenti di Fourier), cioè di una lunghezza intrinsecamente legata alle proprietà statistiche fondamentali del fenomeno.

Nel suo tipico stile, Taylor non sviluppò in modo particolare le conseguenze formali della propria teoria, ma dedicò gran parte della sua attenzione (e dello spazio dei lavori pubblicati) alla verifica sperimentale delle previsioni che da essa poteva trarre. Nei tunnel del vento di recente costruzione le condizioni del flusso nella camera di prova mostravano con ottima approssimazione quelle caratteristiche di isotropia che permettevano di applicare i risultati della sua teoria per calcolarne alcune proprietà, e quindi controllare empiricamente la bontà delle previsioni. Gli eccellenti risultati di queste osservazioni giocarono un ruolo fondamentale nel portare rapidamente il nuovo approccio proposto da Taylor al centro dell’attenzione della comunità degli ingegneri aerodinamici, e in generale dei “meccanici applicati”. Al congresso di meccanica applicata del 1934, von Karman aveva menzionato di sfuggita, al termine della sua relazione generale sullo stato delle ricerche sulla turbolenza, il lavoro di Taylor del 1921, parlandone come di “un approccio radicalmente nuovo”; quattro anni più tardi, al congresso del 1938, un’intera sessione fu specificamente dedicata alla discussione delle nuove teorie statistiche.

Nel modo escogitato da Taylor di porre il problema della turbolenza sono di fatto presenti tutte le idee e gli strumenti concettuali necessari per operarne una integrale traduzione nel linguaggio della teoria della probabilità. Con esemplare indifferenza nei confronti di quello che verosimilmente gli appariva come una semplice estensione formale, Taylor non proseguì in questa direzione, abbandonando il campo per dirigere altrove i suoi interessi. Per dirla con le parole di Batchelor, “come in molti altri casi, creò il settore di ricerca, e poi lo abbandonò prima che diventasse popolare”. Il primo contributo divenuto “popolare” in materia è così quello del matematico russo Andrei Kolmogorov, uno dei padri fondatori della teoria assiomatica della probabilità, che in una serie di brevi lavori del 1941 riformulò le idee di Taylor in quello che è generalmente considerato l’atto di nascita della moderna teoria statistica della turbolenza (risultati sostanzialmente identici a quelli di Kolmogorov furono ottenuti indipendentemente nel 1945 da Werner Heisenberg e Karl von Weizsacker durante il loro soggiorno forzato in Inghilterra alla fine della guerra, e da Lars Onsager negli Stati Uniti).

Durante la Seconda guerra mondiale Taylor collaborò come consulente scientifico a una quantità di progetti di interesse militare, grazie in particolare alla propria competenza nel campo delle onde d’urto associate ad una esplosione. In tale veste partecipò anche marginalmente al progetto Manhattan, e si trovò a essere presente nel deserto di Alamogordo il giorno in cui fu fatta esplodere la prima bomba atomica. Con una semplice applicazione di tecniche del calcolo dimensionale, Taylor elaborò una teoria per stimare l’energia rilasciata dalla bomba, la cui validità poté essere confermata quando qualche anno più tardi le previsioni del suo semplice modello poterono essere messe a confronto con le fotografie scattate al momento dell’esplosione, rese pubbliche perché non più coperte da segreto militare.

Taylor continuò a essere attivamente impegnato nella ricerca anche dopo quello che formalmente costituiva il suo pensionamento. Di fatto, nessuno al Cavendish si accorse mai che Taylor fosse “andato in pensione”. Mentre si cominciavano a sentire gli effetti della guerra sull’organizzazione della ricerca scientifica, e si inaugurava l’epoca di quella che si sarebbe poi chiamata “big science”, Taylor continuò a coniugare strettamente intuizione fisica, modellizzazione matematica e attività sperimentale su piccola scala, applicando la sua peculiare mistura di “ferri del mestiere” a una crescente varietà di problemi di “fisica classica”, dalle proprietà di strati di fluido in rotazione all’elettrodinamica allo studio del meccanismo di spostamento di microrganismi in sospensione in un fluido viscoso. Sviluppò in quegli anni un forte legame con George Batchelor, che intorno al 1945 svolse sotto la sua direzione la propria tesi di dottorato proprio sul soggetto della teoria della turbolenza, e che negli anni Settanta raccolse sotto forma di interviste le memorie del suo maestro; sulla base di queste, e della documentazione raccolta dalle carte personali di Taylor di cui curò la conservazione al Trinity College, Batchelor pubblicò poi la biografia di cui si è fatto cenno all’inizio. Per chiudere con le sue parole, Taylor è stato “un uomo felice che ha passato la sua vita a fare ciò che più desiderava fare, e a farlo straordinariamente bene”.

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