Il Guatemala di Rigoberta Menchu’

“Spero in una cultura di pace, una cultura profondamente diversa da quella in cui viviamo ora. Sappiamo che la guerra ha un costo terribile, ma sappiamo che quello della pace sarà ancora maggiore. Dovremo ridare – dopo gli accordi del 29 dicembre che hanno posto fine ad un trentennio di durissima guerra civile – un futuro di sviluppo e dignità alle popolazioni delle decine di etnie che vivono in Guatemala. Per raggiungere questo obiettivo bisognerà puntare ad uno sviluppo ecologico, che assicuri la sopravvivenza delle popolazioni salvaguardando l’equilibrio naturale, che è alla radice della nostra cultura e che è un patrimonio per l’intera umanità. Dovremo, nello stesso tempo, realizzare la giustizia dei principi e l’equità degli accordi nella concretezza delle nuove leggi. Se non saremo capaci di costruire in questo modo la pace, inizierà un nuovo periodo ancora più terribile di quello in cui erano solo le armi ad avere la parola”.

E’ questo il punto di partenza da cui muove Rigoberta Menchù ogni volta che parla del destino del suo popolo (i Quichè, discendenti dei Maya) dopo la pace in Guatemala, destino indissolubilmente legato a quello di tutti i popoli e nazioni amerindi. Una pace difficilissima perché fondata su un accordo fragile per il futuro e ipotecato da troppe tragedie del passato. E Rigoberta Menchù è l’emblema, semplice e grandioso ad un tempo, di questo processo sospeso fra passato e futuro.

Costretta alle durissime condizioni di vita e di sfruttamento del suo popolo, analfabeta fino in età adulta, ha visto i genitori e i fratelli massacrati dalla furia del regime militare guatemalteco. Premio Nobel per la pace nel 1992, non ha perso nulla della semplicità con cui raccontava gli eventi straordinari e terribili della vita sua e del suo popolo nel libro “Mi chiamo Rigoberta Menchù” (edito per l’Italia da Giunti). Ma incontrarla oggi significa anche trovarsi davanti ad un grande e lucido progetto che si allarga per il futuro a tutti i popoli dell’America Latina.

Dalla lettura del suo libro emerge chiaramente che il rispetto per la natura e l’uso equilibrato delle sue risorse sono alla base della visione dell’universo indio. Come è possibile, partendo da questa visione del mondo, realizzare concretamente uno “sviluppo ecologico”?

“Anzitutto bisogna rovesciare il punto di vista da cui di solito si parte. Non bisogna “educare” allo sviluppo le popolazioni indigene. Molte delle loro conoscenze possono, semmai, essere utili allo sviluppo dell’intera nazione. Ci sono anche ottimi tecnici che appartengono alle diverse etnie originarie, e questi hanno un vantaggio fondamentale rispetto ai ‘ladinos’: parlano molte lingue. Il plurinlinguismo è fondamentale per lavorare in un paese dove si parlano più di venti idiomi. Esistono poi già alcune esperienze concrete che funzionano benissimo e che, mentre da un lato facilitano il reinserimento di chi ha passato la vita con le armi in pugno, dall’altro consentono la salvaguardia di patrimoni importanti per l’intera umanità, come le foreste umide. Ci sono inoltre da valorizzare un patrimonio artistico e delle abilità artigianali di grandissimo rilievo, che si sono perpetuate per secoli. Infine il commercio equo, solidale e rispettoso dell’ambiente. Il vantaggio è contemporaneamente per i consumatori del Nord del pianeta che ricevono alimenti senza le massicce dosi di prodotti chimici usati solitamente nel Sud, e per i produttori del Sud che – oltre che in salute – guadagnano una giusta retribuzione del loro lavoro”.

Un altro problema fondamentale è la traduzione degli accordi di pace in leggi giuste. A che punto è la situazione?

“La lotta nei labirinti della legalità è un lavoro durissimo, che va ben al di là delle frontiere del Guatemala. Coinvolge i paesi vicini, come sta avvenendo in Chapas e PerùMa soprattutto riguarda l’Onu. Per due anni ho percorso i corridoi dell’organizzazione internazionale. E’ un lavoro estenuante, ma che dovrà continuare in futuro per verificare l’effettiva attuazione degli accordi”.

Un compito difficilissimo, dunque, quello che attende ancora Rigoberta Menchù. Ma la sua speranza la porta – sorridente – fra le braccia. Lei, che aveva deciso di non essere madre per i pericoli del ruolo che si era assunta, stringe oggi al petto un bellissimo bambino. “Verrà un giorno – aveva scritto negli anni terribili della lotta – in cui le condizioni saranno differenti. Quando saremo non dico tutti felici in una bella casa, ma per lo meno senza più dover vedere le nostre terre coperte di sangue e di sudore”.

Quel momento è giunto.

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