Il triste destino delle bambine indiane

Nascere donna in India continua a essere una condanna, tanto da indurre le famiglie a una vera e propria selezione delle nascite. Lo conferma, una volta di più, uno studio apparso su The Lancet che ha preso in considerazione tre censimenti della popolazione Indiana dal 1990 al 2005, confrontandoli con i dati della rilevazione del 2011. La fotografia scattata lascia poco spazio alle interpretazioni: anche considerando la maggiore mortalità delle bambine, l’eccesso di maschi fra i bambini da 0 a 6 anni dimostra che, solo nell’ultimo decennio, gli aborti selettivi nel caso di feti femmine sono stati fra i 3,1 e i 6 milioni. Si tratta di una pratica sempre più frequente soprattutto alla seconda gravidanza, se la prima ha già dato una figlia.

Un fenomeno che impone una riflessione. L’India è anche il paese dove molte donne hanno raggiunto posizioni socialmente rilevanti: a fianco di Pratibha Patil, attuale presidente dell’India, e di Sonia Maino Gandhi, leader del principale partito politico indiano, ci sono moltissime donne impegnate nelle aziende, nella politica e nella società. Come mai allora l’aborto selettivo è ancora così tanto praticato? Per rispondere bisogna guardare alle caste più povere, come ha fatto Deepa Mehta, regista indiana, nel film “Water” che denuncia a gran forza le misere condizioni di vita di alcune sue connazionali. Attraverso la storia di Chuya, una ragazzina di otto anni che, ritrovatasi vedova di un marito che nemmeno conosce, viene allontanata dalla sua famiglia e trasferita in un ashram, luogo di ritrovo per vedove indù, la pellicola mette bene in evidenza come essere donna in India significhi dipendere totalmente dai maschi, essere privati dell’identità e una condanna alla sopportazione.

Secondo le disposizioni del Codice di Manu, il più importante e antico testo sacro della tradizione scritta dell’induismo, le donne indiane appartengono prima al padre e poi al marito, e in caso di morte di quest’ultimo, la sposa ha solo tre possibilità: immolarsi sulla pira durante la cerimonia di cremazione, vivere di stenti, o sposare, con l’approvazione della famiglia del defunto, il fratello di questo. Con la morte dello sposo il destino della donna è segnato: una vita non vita, a cui molte sopperiscono col suicidio. Il film è ambientato nel 1938 e lascia intendere il superamento della consuetudine indù proprio con l’affermazione del pensiero di Gandhi, il primo a criticare con fervore quest’usanza, ma nel finale la regista avverte che in alcune zone dell’India le vedove sono ancora realtà. Prova ne sia che nel 2000, una folla di centinaia di fanatici ha sabotato il set di Water minacciando di morte la regista e due delle sue attrici. La lavorazione venne sospesa per motivi di pubblica sicurezza e poté riprendere soltanto cinque anni dopo, nello Sri Lanka, avvolta nel più profondo segreto.

Nonostante i movimenti femministi degli anni Ottanta, la ratifica nel 1993 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, Amnesty International denuncia il persistere a tutt’oggi di tali discriminazioni all’interno della famiglia e della società. I templi e gli ashram sono ancora stracolmi di vedove di tutte le età, che, cacciate dalla famiglia del marito defunto e respinte da quella natale, si guadagnano un piatto di riso in cambio di giornate spese a recitare mantra in suffragio o a elemosinare.

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