“La fame non può essere un’arma”

“Nei prossimi minuti le diverse voci della società civile si riuniranno in una sola. Noi siamo i rappresentanti di più di 1200 organizzazioni, provenienti da circa 80 paesi di tutte le regioni del mondo. Vogliamo portare il messaggio di più di un miliardo di persone affamate e malnutrite della Terra, la maggior parte delle quali donne e bambini. Attraverso le consultazioni regionali e globali abbiamo scoperto e confermato la nostra reciproca solidarietà. La nostra visione comune deriva dalla certezza che l’accesso al cibo è possibile. Ci dispiace di non avere più di quattro minuti per condividere questa visione con voi”.

Sarà questo il preambolo del discorso che il rappresentante delle Organizzazioni non governative rivolgerà ai grandi della Terra, riuniti a Roma fino al 17 novembre in occasione del Vertice per l’alimentazione organizzato dalla Fao (l’agenzia delle Nazioni Unite per l’agricoltura e il cibo). Un discorso che non sappiamo ancora quando verrà effettivamente pronunciato. Mentre scriviamo, infatti – la prima mattina del 15 novembre – non si è ancora concluso il braccio di ferro tra i vertici della Fao, che voleva riservare spazio alle Ong nella serata del 14, e i rappresentanti delle Ong, che spingono per intervenire nella giornata conclusiva, insieme ai capi di Stato.

Il principio sul quale verte il documento delle Ong è che il “diritto umano al cibo è il più fondamentale tra tutti i diritti umani”. Nessuno, di solito, è contrario ai principi. Tantomeno quando si parla di un diritto così inalienabile come quello – proclamato, sempre a Roma, nel 1974 – alla nutrizione. La faccenda si complica quando si passa al piano concreto. Già nei mesi di preparazione al Vertice i gruppi di base avevano realizzato un’agenda, alcuni punti della quale sono stati recepiti nella Dichiarazione di Roma sulla sicurezza alimentare mondiale, adottata da tutti gli Stati presenti il giorno dell’inaugurazione del Vertice. Tra i punti principali della Dichiarazione, il rifiuto dello spettro della fame “come arma politica, sia tra paesi diversi che al loro interno”.

Non è una questione di poco conto, se si pensa che secondo alcune organizzazioni (che usano fonti Fao e Unicef) quasi un milione di persone sarebbe morto in Iraq in seguito all’embargo imposto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu dal 1990. A questo proposito, il documento ufficiale recita: “Il cibo non deve essere usato come strumento di pressione politica ed economica. Noi riaffermiamo l’importanza della cooperazione e della solidarietà internazionale, così come la necessità di astenersi dall’applicare misure unilaterali che non siano in accordo con il diritto internazionale e con la carta delle Nazioni Unite e mettano in pericolo la sicurezza alimentare”.

I paesi che hanno maggiormente spinto per l’adozione di questo punto sono Iraq, Iran, Cuba e Libia, variamente colpiti da misure di embargo. A fare molta resistenza, invece, sono stati Usa e Gran Bretagna, paesi che gli embarghi, di solito, li realizzano. Nel primo fronte, tuttavia, si sono registrate delle differenze di non poco conto. Mentre Cuba – che da decine di anni subisce un boicottaggio statunitense più volte condannato dall’Onu – sottolineava la necessità di bandire gli embarghi unilaterali (quelli, cioè, realizzati da uno o più paesi per decisione autonoma), Libia e Iraq – sottoposti a misure internazionali – chiedevano la condanna di ogni forma di embargo alimentare, indipendentemente dal soggetto che lo decreta.

“La formulazione finale del documento accontenta molto più Cuba degli altri paesi, per quanto il riferimento alla Carta delle Nazioni Unite possa rappresentare un elemento per estendere in futuro la proibizione”, ci dice Marinella Correggia, che nel corso degli incontri pre-Vertice ha rappresentato alcune Ong italiane come “Mani tese” e “Un ponte per…” (l’ex “Un ponte per Baghdad”, che ha cambiato denominazione per estendere la sua azione a paesi diversi dall’Iraq, o addirittura a soggetti ostili a quest’ultimo, come il popolo curdo).

Ancora una volta, tuttavia, il problema rimane quello di passare dalle parole ai fatti. Il documento – sostiene Mark Cohen dell’associazione americana “Bread for the World” – contiene molti punti validi: “Da un lato, il testo mostra attenzione a diversi aspetti, come lo sviluppo sostenibile e un equo accesso al cibo. La necessità di una riforma agraria è chiaramente presente. I documenti sottolineano il problema del sovraconsumo nei paesi industriali, e suggeriscono che la riduzione delle spese militari e del commercio di armi libererà le risorse per garantire la sicurezza alimentare. Dall’altro lato, il documento riflette l’insistenza dei governi del Nord che il Summit si astenga dal chiedere loro nuovi fondi”.

Per questo, dal Forum alternativo è stata rinnovata con forza la richiesta di una Convenzione giuridicamente vincolante sulla “Food Security”, che permetta di affrontare le contraddizioni tra la liberalizzazione dei commerci e la ricerca di uno sviluppo agricolo sostenibile: “Questa convinzione deve essere siglata per assicurare che il diritto al cibo avrà la precedenza su ogni altro accordo internazionale, come quello sull’Organizzazione mondiale del commercio”. Fame e malnutrizione, il destino di più di 800 milioni di persone in tutto il mondo, sono fondamentalmente una questione di giustizia, sostengono le Ong. Sta alle nazioni mobilitarsi perché vengano combattute con efficacia: “Il nostro messaggio è semplice: Queremos una tierra para vivir”.

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