In una società sempre più attenta a consumare meno e a riciclare il più possibile, uno degli obiettivi della ricerca è quello di creare materiali che durino a lungo. In questo ambito, un interessante risultato lo hanno ottenuto i ricercatori della Case Western Reserve University, negli Usa: le loro plastiche, presentate su Nature, sono diverse da quelle realizzate finora (vedi Galileo), perché per la prima volta sfruttano la luce per generare calore nel punto danneggiato e innescare il processo “rigenerativo”.
Da tempo esistono plastiche speciali che, grazie a una particolare struttura molecolare, possono essere riparate e riutilizzate. Le tecniche di riparazione dipendono dalle caratteristiche del polimero (macromolecola costituita da unità ripetute, tenute insieme da legami covalenti). In alcuni casi, si può scaldare il materiale e lavorarlo meccanicamente attraverso pressioni che rimodellano la disposizione delle molecole. Risultati migliori si ottengono con i polimeri in cui i diversi gruppi chimici sono tenuti insieme da legami reversibili, che possono essere ricostruiti una volta rotti. Anche in questo caso, però, per riparare bisogna fornire calore. Il problema è che questo non può essere somministrato localmente.
Per limitare il riscaldamento al punto danneggiato, guadagnando in efficienza e risparmiando energia, si può usare la luce al posto di calore. Ma ciò presuppone che il materiale sia reso anche fotosensibile. Esattamente questo ha fatto Mark Burnworth e il suo team, assemblando catene di idrocarburi (molecole formate da atomi di carbonio e idrogeno) legate a ioni metallici come ferro o lantanio. Questi polimeri assorbono la luce ultravioletta trasformandola in calore, e ciò causa depolimerizzazione, liquefazione, riorganizzazione dei legami e autoriparazione. Oggi, per innescare la riparazione, bisogna “accendere” la luce, ma già si pensa a plastiche che, quando vengono danneggiate, siano capaci di assorbirla dal Sole.
Riferimento: doi:10.1038/nature09963
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