Salute

Cinque cose da sapere sulla leucemia linfatica cronica

(Credits: NIAID/Flickr CC)

Nell’arco di cinque anni il panorama nel trattamento della leucemia linfatica cronica, tra le più comuni forme di leucemia, è completamente cambiato. L’arrivo degli anticorpi monoclonali combinati alla chemioterapia prima (chemioimmunoterapia) e poi delle nuove target therapy, terapie mirate a colpire singoli meccanismi nella cellula cancerosa, apre le porte per la prima volta alla possibilità di interrompere i trattamenti. Perché le cellule malate sono praticamente irrivelabili e i pazienti hanno tempi di ricadute più lunghe. Se ne è parlato a margine del Congresso della Sies (Società italiana di ematologia sperimentale) di Rimini, l’occasione per fare il punto sulla malattia.

Una malattia della tarda età. L’età media di insorgenza della patologia è intorno ai 70 anni. Più frequente nei maschi (senza un motivo ancora ben noto, ma che potrebbe avere a che fare con l’effetto protettivo degli estrogeni nelle donne), è una malattia rara nei giovani, eccezionale in fase adolescenziale. Si calcola che ogni anno colpisca circa 5 persone su 100 mila (dato riferito a tutte le fasce d’età), per un totale circa di 3000 nuovi casi l’anno, contando buona parte dei nuovi casi di leucemia, che in totale arrivano intorno ai 10 mila l’anno. La leucemia linfatica cronica è infatti una delle forme più comuni di leucemia negli adulti, contando circa il 30% dei casi.

I sintomi sono aspecifici, ma non così “comuni”. Febbre, debolezza, perdita di peso, sudorazione e stanchezza sono i sintomi più comuni della malattia, campanelli d’allarme aspecifici però che non sempre devono allarmare i pazienti. “Sospettiamo della malattia quando questi sintomi presentano caratteristiche tipiche, come febbre superiore ai 38°C senza una causa evidente per più di sei settimane, dimagrimento maggiore del 10% in sei mesi senza una causa evidente e una fortissima sudorazione notturna, che può arrivare anche a costringere il paziente a cambiare pigiama”, spiega Antonio Cuneo dell’Azienda ospedaliero universitaria S.Anna di Ferrara. A questi sintomi spesso si accompagnano ghiandole e milza ingrossate.

La diagnosi non coincide con l’inizio delle terapie. La diagnosi di malattia, che si scopre con le analisi del sangue, non significa quasi mai l’inizio delle terapie per i pazienti. “A differenza della leucemia mieloide cronica, dove i pazienti devono subito entrare in terapia perché altrimenti la malattia progredisce, chi riceve una diagnosi di leucemia linfatica cronica ha davanti a sé mediamente 5 anni di vita senza terapia, sotto controllo medico per tre volte l’anno”, continua Cuneo. Il paziente entra in terapia quando, in assenza di altri sintomi, “le analisi del sangue mostrano un sensibile aumento dei globuli bianchi, un brusco calo nell’emoglobina o nelle piastrine o ancora quando i linfonodi sono cresciuti a dismisura, fino a raggiungere diversi centimetri di diametro o comprimono organi o vene”, spiega il ricercatore. Al momento infatti non ci sono evidenze per cui trattare pazienti asintomatici porti un vantaggio.

Ci sono novità terapeutiche. Per i pazienti con leucemia linfatica cronica dopo anni di notizie gradualmente buone oggi sono diventate eccezionalmente buone, sottolienano gli esperti. L’avvento della chemioimmunoterapia (che abbina gli agenti chemioterapici ad anticorpi monoclonali come rituximab, ofatumumab o obinutizumab) ha rivoluzionato il trattamenti della malattia, tanto che la maggior parrte dei pazienti risponde alla terapia, ma non funziona per tutti. In una piccola frazione infatti la chemioimmunoterapia non è efficace, neanche come prima linea di trattamento: sono i pazienti che presentano alcune mutazioni a carico del gene p53 (o per delezione cromosomica o per mutazioni di sequenza), circa un 10% dei casi. Per questi, da pochissimi anni sono disponibili le nuove target therapies, somministrate per via orale e in grado di ottenere risposte profonde: ibrutinib e idelasib, a cui si aggiunge ora anche venetoclax, che ha appena ricevuto il parere favorevole da parte del comitato europep CHMP (Committee for Medicinal Products for Human Use). Le target therapies permettono di (ri)ottenere risposte in quei pazienti non più sensibili alla chemioimmunoterapia, e l’arrivo di venetoclax (un inibitore della proteina BCL2 che nella leucemia prolunga la vita della cellula linfatica) permetterà di ristabilire la risposta anche in quelli che non tollerano ibrutinib o idelalisib o che hanno perso la risposta a questi farmaci. Fornendo un’opzione di cura in più.

L’obiettivo rimane la cura. Le nuove terapie ci permettono di ottenere risposte molto profonde, tanto che si parla di assenza di malattia minima residua. “Non parliamo di guarigione ma la malattia praticamente scompare”, spiega Paolo Ghia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano: “Parlaimo infatti di assenza di malattia residua quando rivelimao meno di una cellula leucemica ogni 10 mila leucociti e in futuro potremmo spingere ancora oltre questo limite di sensibilità, fino a identificare una cellula ogni milione”. La necessità di valutare la malattia così a fondo nasce dal fatto, continua l’esperto, che l’assenza di malattia minima residua si associa a ricadute che avvengono su tempi più lunghi e questo permette di valutare le risposte alle diverse terapie e fare alcune previsioni. Lo scopo però non è alzare il limite di sensibilità quanto l’eradicazione dell’ultima cellula leucemica, e quindi della malattia. Le ricadute della malattia nei pazienti infatti continuano, per questo la ricerca prosegue. Tra le linee aperte per il futuro quelle della combinazione delle terapie attuali, alla ricerca di sempre maggiore efficacia.

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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