L’imprevista variabile umana

“Iracheni, colpite con la forza della jihad e stancate il nemico, rendetelo impotente perché non possa più andare avanti a commettere crimini contro la nostra nazione e l’umanità. Colpite affinché il bene sia stabilito e il male sia fermato”: così parlava al suo popolo Saddam Hussein, tre giorni fa durante l’ultima apparizione in televisione, incitandolo alla resistenza senza quartiere. E proprio il fattore resistenza sembra essere stato sottovalutato dai generali dell’esercito statunitense al momento di pianificare la battaglia e, già oggi, le truppe Usa cominciano a rendersene conto. E se la crociata di George Bush dovesse trasformarsi in una guerriglia strada per strada, casa per casa, come è oggi il conflitto tra israeliani e palestinesi, allora non solo l’Iraq potrebbe diventare una trappola vischiosa ma la guerra di logoramento comporterebbe un costo in termini di vite umane – militari e civili – che potrebbe superare di gran lunga le previsioni. Le previsioni? Si quelle scritte sulla carta, quelle fatte nelle simulazioni militari che, prima dell’inizio delle operazione ‘Iraq freedom’, sono servite per pianificare l’operazione nei minimi dettagli: i tempi, le armi, gli obiettivi. “Gli americani non hanno imparato nulla dalla lezione del Vietnam”, commenta Lamberto Aliberti, direttore di Maspa Italia, un’azienda che si occupa di modelli di simulazione matematica. “Vennero inaugurati al tempo i war games, che usavano algoritmi molto semplici del tipo: se sgancio 48 bombe sulla piana di Hanoi riesco a ottenere la vittoria sul nemico. Quel conflitto in cui gli Usa sono stati ‘sostanzialmente’ sconfitti avrebbe dovuto insegnare ai militari che prendendo in considerazione solo le variabili tecniche, si realizzano simulazioni poco realistiche”. E invece l’errore rimane lo stesso: quelle poche pubblicazioni consultabili sui war games (la maggior parte del materiale è coperto da segreto militare) dicono che oggi le simulazioni di guerra dell’esercito Usa non sono cambiate di molto: tutto si studia sulla base delle tecnologie sempre più sofisticate e della quantità di contingenti schierati.Un’impostazione che non tiene conto della realtà dei fatti secondo un gruppo di ricercatori europei. Che hanno usato un approccio diverso in un progetto condotto dal Centrum (Centro di ricerca convenzionato per la promozione delle nuove tecnologie didattiche per le scienze umane) dell’Università degli Studi di Milano insieme a Maspa, all’Università di Liegi e alla Sorbona per realizzare un modello matematico sul terrorismo internazionale di matrice islamica. Nell’ambito di questa iniziativa è stata fatta una simulazione del conflitto in Iraq che introduce una novità: le variabili psicosociali. “Gli americani probabilmente pensavano di fare una marcia trionfale in Iraq, senza considerare le specificità culturali della popolazione, che comprendono una ferrea opposizione all’american way of life, il fatto che l’Iraq è un sistema politico a base tribale caratterizzato da una gerarchia piramidale che ha tra i suoi primi valori la fedeltà al regime”, spiega Aliberti. Nel modello si parte da un assunto: la coalizione anglo-americana vincerà la guerra. Quello che si cerca di verificare sono i costi del conflitto rispetto a due parametri, il tempo e le vite umane. L’incognita è rappresentata dalle motivazioni degli iracheni – metteranno in piedi una resistenza a oltranza oppure si arrenderanno in tempi brevi – e in particolare dei settori dell’esercito e della popolazione più vicini a Saddam Hussein. Nel modello la dinamica del conflitto è data dalla relazione tra resistenza all’invasione del territorio e suolo effettivamente occupato dal nemico. Gli scenari ipotizzati sono tre: la resa degli iracheni avviene quando gli americani hanno conquistato il 95 per cento del territorio, avviene quando hanno conquistato l’80 per cento del territorio o quando ne hanno conquistato il 65 per cento. A seconda dell’ipotesi la durata della guerra potrebbe essere di 45, 13 o 7 settimane. In base alla lunghezza della guerra varia naturalmente il costo in termini di vite umane, come conseguenza dei cambiamenti nelle stesse modalità del conflitto. In caso di una guerra di durata lunga, si passa dai bombardamenti massicci, a uno scontro con mezzi blindati in aree poco popolate fino a un conflitto casa per casa. Per calcolare il numero delle vittime prodotte da ogni singolo scenario, il modello considera le serie storiche della Guerra del Golfo e dei conflitti nei territori occupati palestinesi. Risultato: 45 settimane di combattimenti comporterebbero 2049 tra l’esercito Usa, 190.941 uomini tra i militari iracheni e 211.259 tra la popolazione. In 13 settimane di conflitto le cifre sarebbero rispettivamente 248 uomini Usa, 77.682 iracheni, 47.148 civili, in 7 settimane diventerebbero invece rispettivamente 68, 63.578 e 39.425. Lo scenario più fosco è quello di una guerra di logoramento, casa per casa, che comporterebbe un numero di vittime molto alto anche tra gli americani. Il contrario per gli iracheni, il cui numero di vittime si concentra soprattutto all’inizio della guerra. In entrambi i casi invece per i civili si ipotizza una catastrofe umanitaria. “Gli Usa poi hanno sopravvalutato il loro arrivo in Iraq, pensando che la popolazione si sarebbe ribellata al regime, o che isolando le città si avrebbe avuto ragione del nemico in tempi brevi”, continua Aliberti. “Questo per il momento non si è dato”. Il modello poi tiene conto anche di una variabile come il ‘caso’: una tempesta di sabbia o un missile che colpisce un bersaglio sbagliato. “Per gli Stati Uniti la guerra è come una partita a scacchi”, aggiunge il matematico milanese “ma pensano che si possa vincere solo con le regine, invece una partita può essere vinta anche solo con i pedoni”.

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