Agricoltura a tutela della biodiversità

    agricoltura di precisione

    Negli ultimi decenni la popolazione umana ha conosciuto una crescita esponenziale, arrivando a sfiorare attualmente i 7 miliardi di individui. Questo fenomeno comporta, necessariamente, richieste di cibo sempre più alte, per poter sfamare l’intera popolazione, e ha come ovvia conseguenza l’espansione dell’agricoltura: habitat naturali vengono convertiti in campi coltivati; il cambiamento di copertura vegetale, la semplificazione del paesaggio e l’uso di fertilizzanti e pesticidi nelle pratiche agricole convenzionali, alterano l’ecosistema locale portando all’estinzione di molte specie.

    Land sparing o wildlife-friendly farming?

    Da tempo governi e scienziati si chiedono quale sia il sistema agricolo migliore, che oltre a mantenere un certo livello di produttività, garantisca anche la conservazione della biodiversità. Uno studio dell’Università di Cambridge e dell’UNEP ha messo a confronto due modelli diversi di agricoltura alternativa  – il land sparing e il wildlife friendly farming – per tentare di trovare una risposta.

    Entrambi i modelli hanno come obiettivo finale la tutela della diversità naturale, ma sono antitetici sia nel modo di utilizzo del suolo che nel grado di integrazione tra agricoltura e natura. Il land sparing (letteralmente “risparmiatore di terra”) punta ad aumentare la produzione per unità di area, nei campi già esistenti, evitando la conversione di nuove terre e mantenendo separati i campi coltivati dagli habitat naturali. Il wildlife-friendly farming si propone invece di mantenere una parte di habitat naturale all’interno dei campi coltivati (ne un esempio sono le pratiche agroforestali), utilizzando in questo modo anche terreni più estesi. In questo studio i ricercatori hanno tentato di individuare alcuni dati fondamentali – riguardanti sia le specie da proteggere che le coltivazioni e i campi – e il metodo più valido per analizzarli, prima di decidere quale sistema utilizzare.

    Dallo studio emerge che per una valutazione corretta  è importante misurare sia il numero di specie presenti in una determinata area (ricchezza di specie) che l’abbondanza delle singole specie, il grado di specializzazione (quanto ogni specie è legata al suo ambiente naturale), l’ampiezza della distribuzione (quanto è grande l’area in cui la specie è presente), ecc. Bisogna poi considerare il valore economico del campo, dipendente dalla sua dimensione e dalla quantità e qualità del raccolto. Una volta rilevati, questi dati devono essere analizzati con dei modelli matematici che predicono l’impatto del sistema agricolo di riferimento sulle singole specie e sulla biodiversità complessiva.

    Come risultato dell’analisi appare evidente che entrambi i metodi hanno dei pro e dei contro, e che ogni volta bisognerebbe considerare il contesto ambientale e quello socio-economico, prima di stabilire quale sia il sistema più appropriato.  “Inoltre,” – concludono i ricercatori – “né il wildlife-friendly farming né il land sparing costituiscono una soluzione definitiva: questi [sistemi] ritarderanno soltanto, ma non eviteranno, la perdita di biodiversità finché l’uomo non sarà in grado di limitare le sue richieste alla terra”.

    Agroecologia, agricoltura tradizionale e paesi emergenti: verso un’agricoltura sostenibile

    Per approfondire l’argomento, abbiamo chiesto un parere a Riccardo Bocci, agronomo dell’AIAB   (Associazione Italiana Agricoltura Biologica) e coordinatore della Rete Semi Rurali, che ci ha parlato di Agroecologia, come una pratica alternativa a quella convenzionale e sostenibile dal punto di vista ambientale e culturale.

    Come dice lo stesso termine, si tratta di un metodo di coltivazione che prende in considerazione l’ecosistema locale nel suo insieme e cerca per quanto possibile di non alterarlo, limitando gli interventi da parte dell’uomo. L’ecosistema, inoltre, viene qui inteso non solo con l’insieme delle complesse interazioni esistenti tra organismi animali, vegetali e suolo, ma anche con tutti gli aspetti culturali, economici e sociali che stanno dietro un sistema agronomico.

    Dott. Bocci ci può spiegare brevemente cos’è l’agroecologia e come si differenzia dall’agricoltura convenzionale?

    Con il termine agroecologia si fa riferimento a diverse pratiche agricole che vanno dall’agricoltura biodinamica all’agricoltura biologica. In generale questi metodi considerano il campo agricolo come un ecosistema, al pari degli ecosistemi naturali, ma in cui c’è impatto antropico. Le tecniche di gestione di questo agro ecosistema tengono conto di quelli che chiamiamo livelli soglia: si tende cioè a non eliminare completamente i patogeni, funghi o insetti che siano, ma a controllarli, mantenendoli sotto determinate soglie, superate le quali sarebbero dannosi. Per controllare gli organismi dannosi, si cerca inoltre di puntare molto su altri organismi (altri funghi o insetti) che sono loro antagonisti.

    Si ha, quindi, un rovesciamento completo rispetto ai metodi dell’agricoltura convenzionale: mentre in questa si tende, infatti, ad eliminare qualsiasi forma di vita nel campo che non sia la pianta coltivata, nel caso dell’agroecosistema si cerca di mantenere un equilibrio tra le diverse forme di vita, sfruttando anche quelle che sono utili.

    Nei Paesi in via di sviluppo si tende in genere a favorire metodi di agricoltura tradizionale, basati sulla coltivazione di varietà locali. Perché è così importante mantenere o talvolta recuperare queste conoscenze?

    Quando si parla di Paesi in via di sviluppo è importante tenere presente prima di tutto che si tratta di molti paesi diversi tra loro, che hanno agricolture diverse. In linea generale è importante mantenere la biodiversità agricola tradizionale e le conoscenze che hanno, perché è proprio a partire da queste che si possono impostare dei processi di innovazione.

    Normalmente, invece, la ricerca agricola ha cercato di applicare a contesti diversi sempre la solita “ricetta”. Possiamo pensare ad esempio alla rivoluzione verde: le stesse varietà, gli stessi approcci agronomici, con l’utilizzo di grandi quantità di acqua, pesticidi e fertilizzanti, applicati in contesti sociali, ambientali e agricoli diversi. Quello di cui ci rendiamo conto ora è che questo modello non funziona sempre, in qualsiasi contesto, e che dove non funziona è importante fare innovazione e ricerca a partite dalle conoscenze e dai materiali locali. Conoscenze e materiali che si sono sviluppati in centinaia di anni, grazie al lavoro degli agricoltori locali, in quegli ambienti specifici, e che quindi sono quelli più adatti ad essere lì coltivati.

    I sistemi agricoli tradizionali non sono in genere poco produttivi? e in tal caso non portano un ulteriore svantaggio per queste popolazioni?

    Bisogna definire prima di tutto cosa vuol dire produttivo. Se misuriamo la produttività in termini energetici, dobbiamo considerare che la maggior parte dei cereali che produciamo oggi in Europa, con una resa agricola molto elevata, la produciamo grazie al petrolio. Per cui è chiaro che queste rese elevate hanno comunque un costo energetico elevatissimo: i mezzi agricoli che usiamo hanno bisogno di gasolio; fertilizzanti, pesticidi e composti chimici sono prodotti a partire dal petrolio, ecc.

    Perciò, se anche oggi possiamo produrre cento quintali per ettaro, questi cento quintali in termini energetici non saranno più sostenibili in futuro, con questa tecnologia, perché dovremmo ridurre gli input su questi sistemi. L’agricoltura tradizionale non facendo uso di input chimici ha un bilancio energetico positivo: produce più energia di quella che vi viene immessa e quindi da un punto di vista energetico è molto più efficiente.

    Se invece misuriamo la produttività in modo classico, in termini di quintali prodotti, è ovvio che i metodi di agricoltura tradizionale o biologica non possono raggiungere i livelli dell’agricoltura convenzionale. Tuttavia, facendo ricerca in questi contesti, si possono aumentare le rese dell’agricoltura tradizionale, ed avere rese discrete anche in agricoltura biologica. Rese che permettano di sfamarci, riducendo i costi energetici di tutto il sistema agricolo.

    Fonti: Food Policy; doi:10.1016/j.foodpol.2010.11.008

    Approfondimento: Global Environmental Change; doi:10.1016/j.gloenvcha.2011.01.004

    Credit immagine: swisscan / Flickr

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