Categorie: Salute

Non basta la genetica

Si può bloccare la trasmissione della malaria modificando geneticamente la zanzara che inocula il plasmodio, il parassita responsabile della malattia nell’essere umano? Marcelo Jacobs-Lorena pensa di sì. E dopo anni di lavoro è riuscito, come ha scritto la scorsa settimana sulle pagine di Nature, a ottenere il primo risultato utile. Insieme ad altri colleghi della Case Western Reserve University dell’Ohio ha inserito nel genoma dell’Anopheles (la zanzara) un gene il cui prodotto interferisce con lo sviluppo del parassita causa della trasmissione della malattia nei topi, un microrganismo molto simile a quello che infetta l’essere umano. La notizia ha fatto il giro del mondo. Ma, sebbene apra nuovi scenari nella lotta alla piaga che fa morire in Africa ogni giorno tre mila bambini, “lo studio è meno concreto di quello che sembra”, fa notare Mario Coluzzi, direttore dell’Istituto di Parassitologia dell’Università “La Sapienza” di Roma. Innanzitutto perché, come detto, il ricercatore ha lavorato sul parassita che infetta il topo, molto simile ma non certo uguale a quello che colpisce l’essere umano. E in secondo luogo per i risultati della ricerca stessa: il gene inserito codifica per una proteina capace di chiudere le pareti dell’intestino. Ma non riesce a bloccare totalmente l’invasione del plasmodio. Nella saliva delle zanzare modificate la concentrazione del microrganismo è pari a un quinto di quella normale, un valore però che non impedisce la trasmissione della malattia ma che ne diminuisce solo la probabilità: due terzi degli insetti infatti non è riuscito a infettare i topi di laboratorio. Insomma, anche se si riuscisse a creare in laboratorio una zanzara transgenica simile partendo dal plasmodium che infetta l’essere umano, la sua completa innocuità non sarebbe garantita.Soprattutto non sarebbe certo facile inserirla nell’ambiente. L’anofele transgenica non sembra infatti essere più forte della varietà selvatica quindi sarebbero scarse le sue probabilità di sopravvivenza contro le concorrenti. “Le zanzare transgeniche da sole non risolveranno il problema della malaria”, ha affermato lo stesso Jacobs-Lorena. Dello stesso parere Coluzzi: “alla base della piaga della malaria e della difficoltà di combatterla in alcune zone dell’Africa c’è un vettore insidiosissimo, l’Anopheles gambiae, che si è evoluto in maniera mirabile”. Al contrario della zanzara che abitava le paludi italiane e che è stata sconfitta nei primi decenni dello scorso secolo, l’insetto che colpisce l’Africa riesce a individuare l’odore dell’essere umano. “Studiando il comportamento delle tribù dei Fulani, una popolazione nomade che abita i Paesi dell’Africa centrale, abbiamo visto come l’usanza di mettere il bestiame intorno alle capanne non serva a ingannare l’insetto”. Un escamotage che invece in Italia fu utilizzato con successo frapponendo i porcili tra le paludi e i villaggi. A questo si deve aggiungere un’altra caratteristica dell’Anopheles gambiae: la sua sopravvivenza e riproduzione non sono legate agli ambienti paludosi ma alle pozze d’acqua assolate e temporanee. Questo significa che, a differenza di quanto accaduto da noi, l’agricoltura in Africa amplifica le possibilità di riproduzione delle zanzare anziché minacciarla. Un vettore così speciale ha quindi bisogno di essere oggetto di studio attento: “per questo è importante che ci siano ricerche come quella di Jacobs-Lorena”, afferma Coluzzi. Ma se si vuole sconfiggere la malaria la scienza di laboratorio non basta.”La mortalità potrebbe scendere di almeno mille unità”, racconta Coluzzi. “Basterebbe garantire una diagnosi in tempo utile”. Per farlo diventa indispensabile il coinvolgimento delle autorità locali, non solo di quelle mediche e sanitarie. Il ritardo nella diagnosi dipende infatti da fattori economici, logistici e culturali. Basti pensare che una cura efficace contro la malaria costa quanto tre giornate di lavoro di un africano. Il malato quindi non si può permettere la terapia completa e la interrompe dopo alcuni giorni. Con il risultato di non sconfiggere la malattia ma anzi di aumentare la resistenza del parassita. “A questo si aggiunge il fatto che spesso i sintomi della malaria vengono sottovalutati dai genitori che portano il loro bambino all’ospedale solo una volta che è già entrato in coma”, spiega Coluzzi. E il viaggio verso il presidio sanitario può durare anche cinque o sei ore a causa della distribuzione sul territorio non uniforme degli stessi. Ma il costo della malaria non si misura solo in termini di mortalità. “Il 30 per cento dell’intelligenza africana viene persa a causa di questa malattia”, conclude il ricercatore italiano. Già, perché i danni mentali in chi riesce a sopravvivere sono tali da compromettere lo sviluppo delle capacità intellettive. La battaglia contro la malaria quindi si può vincere solo a patto di capirne la complessità e di prendere in considerazione tutti questi fattori.

Letizia Gabaglio

Laureata in Filosofia, ha da sempre il pallino per la divulgazione scientifica e per l'organizzazione di cose e persone. E' riuscita a soddisfare entrambe a Galileo.

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