Categorie: Società

“Non limiti, ma buonsenso”

In Germania è in uscita la sua ultima fatica: Im Irrgarten der Intelligenz, cioè “Nel giardino-labirinto dell’ intelligenza” (Suhrkamp, in Italia sarà edito da Einaudi), un percorso nel concetto della I-parola (l’intelligenza, appunto) e, en passant, una requisitoria contro i test di misurazione del quoziente intellettivo. Ma da noi Hans Magnus Enzensberger, intellettuale tedesco i cui interessi spaziano dalla poesia alla matematica è noto soprattutto per il best seller “Il mago dei numeri”, tentativo di trasferire ai piccoli lettori – e ai loro genitori – la bellezza del calcolo. Lo scorso luglio, una giuria di umanisti e ricercatori gli ha conferito il Premio Merk Serono, il riconoscimento dedicato a saggi e romanzi che sviluppino un confronto e un intreccio tra scienza e letteratura, per il suo libro “Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa” (Einaudi 2004). Una sorta di atto d’accusa non soltanto agli scienziati chiusi nei loro laboratori, incapaci di interpretare il loro tempo con gli strumenti della cultura umanistica, ma anche a quegli artisti, scrittori, intellettuali in genere che non hanno mai letto una pagina di Darwin, a quei poeti che si addormentano al solo sentir parlare di numeri, agli psicanalisti che ridono ai discorsi dell’entomologo: gli idiots littrés. In quella occasione Galileo gli ha rivolto alcune domande.

Professor Enzensberger, lei viene premiato per la sua capacità di gettare ponti tra le due culture, quella scientifica e quella letteraria. Ma lei da quale sponda è partito, da quella della ricerca o da quella delle scienze umane?

“Il mio interesse verso questi temi non è recente, risale agli anni di scuola. All’epoca del Nazismo, tutti i discorsi sulla cultura umanistica mi sembravano scadenti: l’unica cosa che interessava le gerarchie era dimostrare l’esistenza di una psiche tedesca, il che mi appariva un nonsense. Io non sono uno scienziato, non sono specialista in nulla, sono solo un dilettante in tutti i campi possibili, però mi diverto, e questo è l’essenziale. Imparare cose nuove per me non è un peso o un obbligo. Gli esercizi matematici, per esempio, sono una specie di fitness per la mente. C’è chi fa sollevamento pesi, io alleno i muscoli del cervello”.

Rispetto a qualche decennio fa, oggi sembra esserci più interesse per la scienza – basti pensare al proliferare di riviste o di trasmissioni televisive di divulgazione. Ma forse si chiede alla scienza dei punti di riferimento, dei valori, che altri saperi non riescono più a dare?

“Valore è un termine derivato dall’economia, non è una parola molto spirituale. Non amo parlare di valori come se fossero oggetti da acquistare e da portare a casa. Anche perché cambiano nel tempo: oggi un valore è la flessibilità, per esempio quella sul mercato del lavoro. Prima era l’opposto, si ammirava la lealtà, la stabilità. Allora preferisco parlare di coscienza, di bene e male. Ma anche questi non sono mai stati concetti definitivi. Soprattutto, la scienza non ci può aiutare in questa ricerca di una definizione, non è il suo compito, uno scienziato non deve fornirci il senso della vita. Al contrario, la scienza oggi ci presenta dei dilemmi: la clonazione, i trapianti, la medicina della riproduzione… problemi, non soluzioni”.

A proposito di questo, nel suo libro “Gli elisir della scienza” lei attraversa discipline come la fisica, la matematica, le tecnologie delle telecomunicazioni… Ma nei confronti della biologia sembra avere uno sguardo più “apocalittico” che “evangelico” – secondo una sua definizione. E i suoi interventi hanno generato diverse polemiche. Mi sembra che questo atteggiamento nei confronti delle possibilità aperte dalle biotecnologie sia simile a quello che si aveva negli anni Cinquanta nei confronti della Fisica delle particelle. Che oggi, però, suscita assai meno dibattito di allora. Dunque, chi stabilisce di cosa bisogna avere paura?

“Negli anni Settanta i mass media hanno avuto un grande ruolo nel parlare del pericolo dell’atomica. Il fatto è che le società moderne hanno bisogno di panico. Mi ricordo di quando in Germania c’era la paura delle piogge acide, non si parlava d’altro. Oggi non se ne parla più, ma questo non vuol dire che siano cessate o non ci siano più rischi. Secondo me, anche le scienze attraversano delle fasi di sviluppo: l’infanzia, la gioventù, la maturità. La Biologia è una scienza abbastanza recente, pensi che la fisiologia della riproduzione è stata descritta soltanto alla fine dell’Ottocento. La Fisica ha una storia molto più lunga. Ebbene, gli adolescenti hanno sempre delle manie di grandezza, delle fantasie di onnipotenza, e questo è un po’ il caso di una certa parte della biologia oggi. Ovviamente non bisogna generalizzare, ci sono anche biologi modesti, che riconoscono i propri limiti. Ma ci sono anche i pazzi che promettono la vita eterna e roba del genere”.

Dunque prima o poi anche la biologia rientrerà nell’età matura…

“Sì, e questo è anche uno dei motivi per cui credo che sia necessaria una riflessione seria della società sulla scienza. Solo il dialogo con la società può far crescere una disciplina, non esistono crescite a senso unico”.

Nel frattempo, secondo lei è necessario stabilire dei confini oltre i quali la scienza non debba andare?

“Mi sembra molto difficile porre limiti alla ricerca. Dico però che a volte c’è troppa complicità tra ricerca e industria, con finanziamenti distorti e episodi di corruzione. Ovviamente questo non è un discorso strettamente scientifico, è questione di etica. Ma gli scienziati non sono santi, sono uomini come noi. Credo che all’interno del processo scientifico ci siano dei meccanismi di controllo e verifica che funzionano abbastanza bene. Se un articolo appare su Science o Nature, io so che posso fidarmi. Certo, poi ci sono episodi come quello dello scienziato coreano (il veterinario Woo Suk Hwang, poi accusato di frode scientifica, ndr.) che si inventa i dati di sana pianta. O come il vostro ginecologo (Severino Antinori, ndr) che promette di rendere mamme le donne di sessant’anni… Ma i veri problemi non sono nella ricerca, sono nell’applicazione industriale. Parlo della sperimentazione dei farmaci, per esempio, o della sicurezza delle centrali nucleari: ci sono sempre sedicenti esperti disposti a fare perizie compiacenti e pagate profumatamente per stabilire l’innocuità di una molecola o l’efficacia di un impianto. Ma se si verificano dei decessi sospetti, allora le autorità si decidono a intervenire. E l’industria colpevole rischia di perdere miliardi per aver operato al di fuori delle leggi. Anche questo è un meccanismo di controllo. Voglio dire: i limiti alla ricerca non sono possibili, ma la società deve saper utilizzare le scoperte con buon senso. In genere la ricerca è indirizzata dagli interessi dei finanziatori, ma è bello sapere che siamo anche capaci di costruire qualcosa come i grandi telescopi o l’acceleratore di particelle Lhc al Cern di Ginevra: sei miliardi di euro per una cosa che non ha un ritorno economico, almeno nell’immediato”.

Con “Il mago dei numeri” lei ha affrontato anche la trasmissione del sapere scientifico – in questo caso la matematica – ai bambini. Per insegnare nelle scuole non tanto le singole discipline, ma il metodo scientifico, quale strada bisogna percorrere?

“Premesso che non sono uno specialista, alla base di quel libro c’era il fatto che avevo due figli che a scuola si annoiavano a morte. Il problema era che anche i loro insegnanti si annoiavano a morte. Cosa impara un professore di matematica nel corso dei suoi studi? Impara la matematica, ma non ha nessuna idea di come trasmettere questa passione ai ragazzi, di come parlare con loro, di come divertirsi, poveretto. Ha solo una cattedra e una lavagna su cui scrivere i suoi numeri. Se poi aggiungiamo i ministeri che gli infliggono dei programmi noiosi, è ovvio che la cosa non funziona. Così gli studenti imparano solo a superare gli esami, a passare il “rituale di iniziazione”: questo conta, non la matematica. Il che, ovviamente, è molto grave. Io non ho la soluzione a questo problema. Penso solo che bisognerebbe insegnare le cose ai bambini in un altro modo. E insegnare agli insegnanti a insegnare, indipendentemente dalla materia. Purtroppo la scuola è un’istituzione vecchia, sclerotizzata, ottocentesca, e non è facile cambiare le regole. Perché mai un ragazzo dovrebbe sapere a memoria il punto di congelamento del metano, che è perfettamente inutile, e non avere alcuna nozione di economia o di diritto?”.

Elisa Manacorda

Giornalista, è direttrice di Galileo, che ha fondato nel 1996 con altri giornalisti e ricercatori. Scrive di scienza e tecnologia per le principali testate italiane. E’ docente al Master SGP della Sapienza Università di Roma, collabora con il Master in Comunicazione della Scienza dell'Università di Ferrara. Con Letizia Gabaglio è autrice di "Il Fattore X" sulla medicina di genere.

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