Più riparazione meno pena

Prima del diritto penale moderno – quello, per intenderci, nato con le codificazioni ottocentesche, in cui sono confluite le istanze liberali del pensiero illuministico – il sistema penale aveva avuto il suo fulcro dapprima nell’idea di “vendetta” e, successivamente, in quella di “castigo”. La tradizione vetero-testamentaria rimanda infatti l’immagine di una pena che è pura ‘compensazione’ del male, e che tende perciò a restituire al reo lo stesso tipo di offesa che questi, attraverso l’atto illecito, ha procurato alla vittima. La pena, dunque, non cerca di “cancellare” l’offesa ma risponde al male del reato con un male che può essere definito “uguale” – è questa la legge del “taglione” – e “contrario” – perché retrodiretto alla persona che lo ha cagionato.

L’età di mezzo, in cui il precetto penale tende a sovrapporsi a quello morale, si caratterizza invece per una concezione della pena di tipo eticizzante: il delitto viene visto come offesa alla volontà di Dio, e allora la pena assume i connotati del castigo e della espiazione. Quando la pena rappresenta una sorta di “medicina dell’anima” diventa una necessità assoluta che essa venga inflitta al vero colpevole, affinché questi possa emendarsi dal peccato, e, perciò, che non vi sia spazio alcuno per l’errore giudiziario. Ne deriva che il processo, a sua volta, dovrà essere costruito in modo tale che si ottenga sempre la confessione del reo. La tortura, il giudizio di Dio, l’ordalia sono tutti sistemi escogitati per estorcere la confessione; il processo inquisitorio mira alla scoperta della verità, da raggiungere a qualunque prezzo, perché la pena esige l’espiazione. Dal Medioevo fino alla metà del ‘700 si scrivono le pagine più tristi della storia del diritto penale: in questo periodo infatti “si porta all’esagerazione l’atrocità delle pene capitali e corporali e fino al grottesco le pene infamanti qualificate (berlina, vestizioni, denudazione, marchio, gabbia)” (1).

Bisognerà attendere l’opera di Cesare Beccaria, in Italia, e quella di Jeremy Bentham, in Inghilterra, perché si levi una voce contro lo “splendore dei supplizi” e contro l’applicazione di pene corporali o infamanti. La pena cessa, allora, di essere compensazione o espiazione del male; essa si “spiritualizza” – non ricadendo più sul corpo del condannato – e si trasforma nei contenuti fino a diventare una compensazione soltanto simbolica del danno. Strutturalmente, le sanzioni moderne – la pena detentiva o la pena pecuniaria – non hanno più nulla a che fare con la dimensione reale dell’offesa: qualunque siano il danno o il pericolo cagionati dal reato, la sanzione potrà assumere unicamente le forme della privazione della libertà o della diminuzione del patrimonio.

La fase ulteriore di questo lento processo di umanizzazione del diritto penale vede l’affermarsi di una logica sanzionatoria del tutto diversa, che si fonda sulla rieducazione e sul trattamento del condannato. Inaugurata negli Stati Uniti con il Congresso di Cincinnati alla fine dell’800, ed elaborata in Europa in termini di politica criminale da Karl Grolman e da Franz von Liszt, la “rieducazione del condannato” impone di ripensare ai contenuti della pena, per orientarli al recupero sociale del reo. La pena, cioè, non si autolegittima più su fattori trascendenti – e cioè su una esigenza di giustizia di tipo assoluto, come nel pensiero di Kant o di Hegel – ma è etero-legittimata dallo scopo che si prefigge, che è quello di evitare la ricaduta nel delitto di chi ha già trasgredito la legge e di restituire, in definitiva, alla società un individuo capace di convivenza pacifica.

Può sorprendere, forse, come nel sistema “dei delitti e delle pene” sopra sinteticamente descritto nelle sue fasi storiche salienti, la vittima del reato (che peraltro è normalmente co-protagonista del fatto delittuoso) non compaia quasi mai. Il diritto penale infatti, da sempre, riserva alla vittima un ruolo assolutamente marginale. La logica del taglione non mira alla riparazione del danno, ma sazia soltanto l’ancestrale bisogno di vendetta che è in ciascun individuo; la pena come espiazione trascura la dimensione morale o patrimoniale dell’offesa per concentrarsi unicamente sul percorso di purificazione spirituale del trasgressore. L’approccio rieducativo, da parte sua, proprio perché muove dall’idea di corresponsabilità della società nella genesi del delitto, finisce col preoccuparsi quasi esclusivamente dei bisogni di risocializzazione del reo.

Come avevano osservato i maggiori esponenti della Scuola positiva – il riferimento è principalmente a Enrico Ferri e a Raffaele Garofalo – la vittima, che pure è il soggetto che risente maggiormente del fatto criminoso, resta sempre sullo sfondo: marginale è il ruolo che riveste nel processo – in cui appare per lo più in qualità di testimone – spesso insoddisfatto è il suo diritto al risarcimento del danno e completamente trascurata la dimensione emozionale dell’offesa. Scriveva Garofalo nel 1887, a proposito delle vittime di reato: “E pure questa classe di persone, a cui ogni più onesto cittadino potrà avere la sventura di appartenere, meriterebbe da parte dello Stato uno sguardo benevolo, una parola di conforto. Essa avrebbe diritto a maggiori simpatie che la classe dei delinquenti, i quali sembrano oggi il principale oggetto della sollecitudine dei nostri legislatori” (2).

Alle soglie del XX secolo, tuttavia, la giustizia penale sembra accorgersi finalmente della vittima, e lo fa cercando essenzialmente di promuovere la riparazione del danno da reato, cominciando con il consentire, ad esempio, la costituzione di parte civile all’interno del processo penale. Ma è solo a partire dalla metà del ‘900 che la vittima diventa oggetto di studio da parte della criminologia e segnatamente da quella branca che prende il nome appunto di “vittimologia”. Si tratta di una scienza che cerca di chiarire non solo il diverso grado di propensione alla vittimizzazione – distinguendo, ad esempio le vittime occasionali da quelle preferenziali o simboliche: si pensi, rispettivamente, alle vittime del reato di furto, di sequestro di persona a scopo di estorsione o di attentati terroristici – ma anche di evidenziare la reale entità dell’offesa che la vittima subisce per effetto del reato.

Parallelamente, i primi movimenti a favore delle vittime di reato, comparsi negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei a partire dalla metà degli anni ‘60, contribuiscono a promuovere una visione allargata del fatto di reato che tiene conto di tutte le possibili estrinsecazioni dell’offesa (il danno materiale e il danno morale, in primis, ma anche la sofferenza, il disagio e il senso di insicurezza che spesso conseguono all’esperienza di vittimizzazione) e predispongono servizi operativi di assistenza e di supporto alle cosiddette vittime deboli.

Il rinnovato interesse per le vittime genera, dunque, unitamente ad altri fattori, l’ultimo “epiciclo” della giustizia penale che va sotto il nome di “giustizia riparativa”.

Sebbene il nome indichi attualmente una pluralità di interventi e di strategie politico-criminali, la giustizia riparativa può essere definita come un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni al conflitto allo scopo di promuovere la riparazione, la riconciliazione e il rafforzamento del senso di sicurezza” (3). La giustizia riparativa rappresenta uno strumento di intervento flessibile, che consente, laddove possibile, di rinunciare alla pena o anche, addirittura, al processo, e di avvalersi, per converso, di tecniche extragiudiziali di riparazione e di composizione del conflitto. Questo paradigma mira al raggiungimento di una serie di obiettivi specifici e principalmente, come si è visto, alla reale tutela delle vittime, da raggiungersi attraverso la riparazione del danno complessivo (sofferenza fisica e psicologica, oltre che meramente economica) e la predisposizione di strategie di intervento idonee rispetto a tutti i piani soggettivi del disagio o del dolore.

Come giustizia che cura anziché punire, la giustizia riparativa tende anche a intensificare il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione. La comunità, in particolare, può giocare un doppio ruolo. Può essere, in primo luogo, destinataria delle politiche di riparazione e di rafforzamento del senso di sicurezza collettivo: la giustizia riparativa è, allora, una giustizia “per” la comunità. Sotto questo profilo, gli strumenti di cui essa si avvale sono costituiti, ad esempio, dal pagamento di una somma di denaro a favore di Fondi di garanzia delle vittime o dalla prestazione da parte del reo di un’attività lavorativa socialmente utile. In secondo luogo, la comunità può essere attore sociale in un percorso “di pace” che si fonda sulla concreta azione riparativa dell’autore dell’offesa: in questo caso, la comunità è soltanto un beneficiario indiretto delle politiche di compensazione e di controllo. Si può parlare allora di giustizia nella comunità. Il riferimento è alla neighbourhood justice nordamericana (la cosiddetta “giustizia del vicinato”), attraverso cui si cerca di gestire l’aspetto relazionale dell’offesa ricorrendo, come si specificherà più avanti, soprattutto alla mediazione.

La giustizia riparativa tende inoltre a promuovere e ad incoraggiare l’autoresponsabilizzazione del reo. La riparazione – che passa necessariamente attraverso una attività positiva del reo – si fonda infatti su un percorso psicologico evolutivo che dovrebbe portare l’autore del reato ad elaborare il conflitto e le cause che lo hanno originato, a riconoscere la propria responsabilità e ad avvertire la necessità di lenire la sofferenza altrui. La valenza terapeutica che si suole associare all’intervento riparativo è perciò bidirezionale: orientata sia al soddisfacimento dei bisogni e alla promozione del senso di sicurezza delle vittime, sia all’autoresponsabilizzazione e alla presa in carico delle conseguenze globali del reato (danno alla vittima e alla comunità) da parte del reo.

Ulteriore, fondamentale obiettivo della giustizia riparativa è rappresentato dalla presa in carico del senso di insicurezza individuale/collettivo. La commissione di un reato ha infatti come conseguenza immediata la percezione, da parte della comunità, della vulnerabilità dei propri componenti e dei loro beni; tale percezione collettiva di insicurezza dovrebbe essere controbilanciata da un segnale dello Stato che induca i cittadini a ritenere che il comportamento violento è contrario all’ordinamento e che perciò non verrà più tollerato. In caso contrario, l’allarme sociale può diventare incontrollabile e generare una percezione collettiva amplificata della criminalità tale da incidere negativamente sulle condizioni economiche e sociali della comunità e da innescare, in definitiva, una spirale ascendente del crimine.

Pertanto nell’ottica della giustizia riparativa, la comunità, anziché attendere passivamente una risposta forte dalle istituzioni, può utilmente intervenire nella gestione del conflitto per ripristinare il senso di sicurezza collettivo. In concreto, essa può attivarsi per proteggere le vittime da ulteriori offese da parte del reo, per proteggere il reo dalla vendetta della vittima o dei suoi familiari o per creare le condizioni favorevoli perché possa essere avviato un percorso di riparazione o infine per definire nei contenuti la condotta riparativa e per verificare la correttezza del suo espletamento. Assicurare alla comunità il potere di gestire, almeno in parte, i conflitti che si verificano al suo interno significa allora restituire alla comunità la capacità di allontanare il disagio e la paura per il reato.

Nell’ambito della giustizia riparativa confluiscono, in concreto, una serie di istituti molto diversi fra loro: alcuni sono già utilizzati dalla giustizia penale “classica” – si pensi appunto la risarcimento del danno o al lavoro a favore della comunità – altri rappresentano una specificità della giustizia riparativa. Tra questi ultimi – che comprendono forme di assistenza alla vittima o modelli di gestione informale del conflitto a cui partecipano le comunità di appartenenza del reo e della vittima – si segnala in particolare la “mediazione penale”, che costituisce “un processo, il più delle volte formale, con il quale un terzo neutrale tenta, mediante scambi tra le parti, di permettere a queste ultime di confrontare i loro punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone” (4).

La mediazione penale, tuttavia, non va pensata riduttivamente come una semplice attività di interposizione fra più soggetti. Anzitutto, in essa, la componente comunicativo-relazionale riveste un ruolo di tutto rilievo. A differenza del diritto penale, che normalmente si serve di strumenti afflittivi – la privazione della libertà, la diminuzione del patrimonio, la limitazione della libertà di circolazione, le interdizioni – la mediazione ricorre, almeno nella sua fase iniziale, ad un solo strumento: il linguaggio. La mediazione penale è, dunque, sostanzialmente un processo relazionale in cui, dapprima attraverso la parola scambiata e indirizzata e, successivamente, anche attraverso una condotta riparatrice, si cerca di riattivare la comunicazione sociale fra l’autore e la vittima di un reato.

Inoltre la mediazione, pur giovandosi dell’attività di un terzo neutrale e quindi, per definizione, equidistante rispetto alle parti (vittima e autore) consente di attivare un percorso di riparazione che si fonda essenzialmente sul riconoscimento dell’offesa e sulla rielaborazione comune del conflitto. La mediazione, dunque, non fa artificiosamente scomparire lo squilibrio connaturato alla situazione creata da reato ma lo porta alla luce in tutti i sui risvolti per condurre, alla fine, ad una nuova visione del conflitto elaborata da entrambe le parti.

Perché il percorso di mediazione abbia in partenza possibilità di successo occorre però che la vittima possa sentirsi dalla parte della ragione – fatto, questo, che le consente di accettare l’offerta di riparazione – e che percepisca più vicino a sé la comunità (e/o lo Stato) per riacquistare sicurezza, ma anche che il reo riconosca il torto per avvertire la responsabilità. In sostanza, la mediazione tende a ripristinare la comunicazione intersoggettiva e sociale spezzata dal reato e a preparare così il terreno per una spontanea attività di riparazione che può portare al definitivo superamento del conflitto. Che alle parti (autore e vittima) sia offerta una possibilità, guidata appunto da un mediatore, di riprendere a dialogare tra loro è di fondamentale importanza: ogni manifestazione di aggressività e di violenza lascia sempre, infatti, soprattutto nelle vittime, dei residui di amarezza, paura, desiderio di rivalsa, che daranno luogo – se lasciati a loro stessi – a ulteriori contese, capaci di estendersi all’ambiente sociale di provenienza delle parti.

Alla vittima, in particolare, la partecipazione alla soluzione/composizione del conflitto – anche attraverso la mediazione – offre l’opportunità di riguadagnare un elemento di controllo sulla propria vita e sulle proprie emozioni e di superare gradualmente i sentimenti di vendetta o di rancore verso il reo – alimentati più dal ruolo di delinquente che non dalla concreta persona che vi è dietro – e di sfiducia verso l’Autorità che avrebbe dovuto tutelarla.

Mentre all’estero si sperimentano già da anni diversi strumenti di tipo riparativo e di mediazione (victim-offender mediation, reparative boards, truth and reconciliation commissions, family group conferencing), con esiti peraltro soddisfacenti, in Italia le esperienze di mediazione penale sono molto recenti e ancora limitate ad alcuni esperimenti nel settore minorile (Tribunali per i minorenni di Torino, Bari, Milano, Trento, Roma, Catanzaro). Nel nostro ordinamento, gli Uffici di Mediazione (formati da psicologi, criminologi, operatori sociali) ricevono i casi da mediare direttamente dalla Procura della Repubblica (o dalla Magistratura giudicante) e invitano le parti, ma solo dopo colloqui preliminari individuali, durante i quali le parti esprimono il loro consenso, a partecipare al percorso di mediazione.

Una volta conclusa, la mediazione è valutata sulla base di indicatori psicologici (tenore e atmosfera dell’incontro), concreti (impegno a forme di riparazione materiali) e, prima ancora, simbolici: la mediazione ha esito positivo ogniqualvolta il mediatore percepisce che le parti giungono ad una nuova visione l’una dell’altra, ad un riconoscimento reciproco e ritrovano la propria dignità di persone. E’ da questa riparazione morale che scaturisce poi l’impegno a forme di riparazione materiale del danno che possono comportare, secondo quanto previsto dalle regole del processo penale minorile, il proscioglimento del minore per irrilevanza del fatto o la dichiarazione di estinzione del reato (quest’ultima preceduta, però, sempre dalla sottoposizione del minore ad un “periodo di prova”).

Una delle maggiori difficoltà che ostacolano l’ingresso delle politiche di mediazione e/o di riparazione nel nostro ordinamento è costituita dalla presenza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, che impone di perseguire tutti i reati di cui la pubblica autorità sia venuta a conoscenza. Questo significa che solo a prezzo di una parziale rinuncia a tale principio, che da noi ha fondamento Costituzionale, diventa possibile consentire che la mediazione o le altre forme di soluzione alternativa delle controversie su base riparativa condizionino l’esercizio dell’azione penale e/o l’esito del processo. L’esperienza maturata da anni in Germania nel settore della giustizia riparativa indica, tuttavia, che è possibile pensare ad una “attenuazione” del principio di obbligatorietà dell’azione penale per fare in modo che la composizione del conflitto scaturita dalla mediazione – che, nel settore minorile, il giudice è chiamato sempre a promuovere – o dalla riparazione volontaria del danno agisca sul processo consentendo l’archiviazione o la rinuncia alla pena.

L’altro ostacolo che fa della mediazione uno strumento non applicabile a largo spettro è costituito dal fatto che la mediazione non è possibile per tutti i reati: ne sono esclusi, per ovvie ragioni, per esempio i reati “senza vittime” (inquinamento, frodi comunitarie ecc.). In sintesi, i reati astrattamente mediabili sono quelli che, pur non necessariamente gravi, possono comunque suscitare allarme sociale, quali furti, imbrattamenti, danneggiamenti, disturbi della quiete pubblica, ingiurie, minacce, risse, lesioni personali, atti di violenza sessuale (limitati a i casi meno gravi ed intercorsi tra soggetti che già si conoscono), rapine e reati con aggravante razziale.

Diventa comprensibile allora come la mediazione e, più in generale, la giustizia riparativa, pur non rappresentando modelli di soluzione extragiudiziale del conflitti in grado sostituire la giustizia penale e neppure il ricorso alla pena, possano però diventare la corsia di preferenziale intervento almeno per determinati conflitti (quelli provocati da reati commessi da minorenni o dai cosiddetti delitti di relazione – in cui autore e vittime si conoscono – o da reati bagatellari) ed essere utilizzata tutte le volte in cui sia necessario principalmente riparare il danno alla vittima e l’applicazione della pena tradizionale appaia, in relazione al suo destinatario, inutile o addirittura controproducente (come nel caso, appunto, dei minori).

Resta ora da chiarire un ultimo punto, cruciale. Si è detto che per gestire un conflitto originato da un reato, o che si è espresso attraverso un reato, la giustizia riparativa ricorre a modalità molto diverse da quelle predisposte dal diritto penale: essa non usa il potere che caratterizza il diritto penale, non esprime soluzioni a senso unico, non ha effetti stigmatizzanti. Ci si potrebbe chiedere allora se il ricorso alla giustizia riparativa non rischi di deprimere quell’effetto deterrente che è connesso invece alla minaccia della sanzione penale. Non è da escludere, tuttavia, che anche la giustizia riparativa possa agire come fattore di stabilizzazione sociale. La condizione perché il modello riparativo possa funzionare come deterrente – magari contribuendo, nei tempi lunghi, a rafforzare gli standard morali collettivi – è che la prassi e gli esiti della riparazione vengano comunicati alla collettività con sufficiente persuasività, in modo da contrastare efficacemente le crescenti e irrazionali richieste di prevenzione generale.

In definitiva, la giustizia riparativa costituisce un approccio al reato che, superando la visione orientata sul solo autore quale destinatario dell’intervento punitivo, suggerisce un cambiamento di prospettiva tale da includere una adeguata considerazione delle reali necessità delle vittime e delle esigenze della comunità. Essa ci insegna inoltre che la società civile non ha bisogno solo e necessariamente di norme rinforzate da sanzioni, ma anche – e il discorso vale soprattutto per le società complesse moderne – di un’etica della comunicazione che alle norme possa offrire una legittimazione e una conferma di validità.

Bibliografia

1) Enrico Ferri, Diritto criminale, Torino, 1928.

2) Raffaele Garofalo, Riparazione alle vittime del delitto, Torino, 1887.

3) Howard Zeher, Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice,Scottsdale, 1990.

4) Bonafé-Schmitt, La médiation: une justice douce, Paris, 1992.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here