In principio era il Bull Dog. Addestrato a combattere contro i tori, afferrandoli per le orecchie o per il muso senza mai mollare la presa. Poi venne il Bull Terrier, più agile e scattante, aizzato contro i suoi stessi simili, avversari più piccoli dei tori e perciò più facili da nascondere alla polizia. Infine, nel secolo scorso, dopo svariati incroci, è arrivato il Pit Bull come lo conosciamo oggi: un cane di media taglia, occhi stretti, orecchie piccole e mascella potente. Protagonista dello stesso crudele “sport” per cui è stato creato, ma anche, secondo i più recenti fatti di cronaca, di attacchi agli umani gravi e ripetuti. A tal punto da indurre il ministro della Salute Girolamo Sirchia a emanare lo scorso 9 settembre un’ordinanza “contingibile e urgente per la tutela dell’incolumità pubblica dal rischio di aggressioni di cani potenzialmente pericolosi”.Un provvedimento che proprio non va giù ad animalisti, etologi e persino ad alcuni magistrati, come Salvatore Vecchione, Procuratore della Repubblica, che sulle pagine del Messaggero (25/09/03) lo definisce inapplicabile perché “generico e confuso”. Il decreto di Sirchia, infatti, che dovrebbe precedere una legge sulla sicurezza contro i cani potenzialmente pericolosi, attribuisce caratteristiche etologiche decisamente negative ai fini della convivenza con l’essere umano non solo ai Pit Bull, ma ad altre razze canine, mettendone in totale 92 “fuorilegge”. Tra cui, solo per citarne alcune, i cani pastore, i cani di tipo Pinscher e Schnauzer e il Border Collie: animali docili, che non mostrano attitudini aggressive e la cui amicizia col genere umano ha radici lontane. “L’ordinanza spara nel mucchio”, afferma Giorgio Celli, divulgatore scientifico ed etologo presso l’Università di Bologna, “poiché individua in tutti i cani di grossa taglia dei potenziali criminali, mostrando di non conoscerne i diversi profili comportamentali. L’aggressività non è una questione genetica, ma il frutto dell’educazione e delle esperienze che l’animale acquisisce. Il primo paradosso scientifico del decreto sta proprio qui: nell’attribuzione indiscriminata di comportamenti pericolosi alle razze piuttosto che ai singoli cani”.Se, dunque, non esistono “razze buone” e “razze cattive”, occorre fare dei distinguo anche tra i tanto bistrattati Pit Bull. “Sì è vero”, va avanti l’etologo, “il Pit Bull è un cane più ‘armato’ di altri, poiché è stato selezionato per i combattimenti, reso più formidabile dal punto di vista corporeo, dotato di una potenza e di un’agilità straordinarie. E’ un cane ‘spartano’ nel senso che, più di altri, sopporta il dolore. Ma non è aggressivo per natura, come non lo è nessun cane. Ne danno prova gli stessi addestratori che per farne una macchina da combattimento devono sottoporlo a prove di efferatezza e crudeltà, facendone una vittima della loro violenza prima ancora che un carnefice”. Quando ancora è cucciolo, infatti, prima dei cinque mesi di vita, il Pit Bull, chiuso in un sacco, viene picchiato e costretto per giorni e giorni a soffrire il freddo e la fame. Prima dei match “ufficiali”, si esercita a straziare cani di piccola taglia, mantenendosi in costante allenamento con metodi tesi a provocarne ed esaltarne la cosiddetta gameness, la tendenza cioè ad affrontare l’avversario senza valutarne la pericolosità, ad attaccare e continuare lo scontro anche fino alla morte. Secondo l’Osservatorio nazionale zoomafia, ogni anno in Italia più di 5.000 cani, in maggioranza Pit Bull, sono vittime dei combattimenti legati alle scommesse clandestine: un business criminale stimato in più di 775 milioni di euro l’anno. Non solo: un cane non addestrato a combattere, ma solamente a far la guardia al suo proprietario o alla casa di questo, può esser vittima di equivoci e contrasti, nel caso in cui, per esempio, non conosca tutte le persone amiche del suo padrone. “Perché allora”, si chiede Celli, “quando questi cani mordono, apparentemente senza essere provocati, non si fanno accurate indagini sulla loro anamnesi, su come cioè sono stati addestrati o semplicemente abituati a vivere, sulle cicatrici che spesso riportano e che potrebbero dirci tanto della loro storia?”. Discutibile dal punto di vista scientifico, l’ordinanza del ministro Sirchia rischia anche di fallire l’obiettivo. “Ne è venuta fuori una cinofobia”, va avanti l’etologo, “che sta dando già i primi frutti negli abbandoni e nelle mancate adozioni di questi (e di altri) cani. In un’atmosfera animata per di più da un vero e proprio spirito medioevale di caccia alle streghe che porterà le persone, prima o poi, a uccidere i cani a bastonate”. Gli addetti ai lavori stanno lavorando, in realtà, ad alcune modifiche, ma “l’ordinanza non era affatto necessaria”, conclude Celli, “perché quello che di buono contiene esiste già sotto forma di leggi: per esempio, è del 1951 la norma che impone l’uso della museruola e dal 1991 esiste l’obbligo di iscrizione all’anagrafe canina, che consente, tramite i microchip, di risalire ai proprietari. Altro che polizza assicurativa: un business che non mancherà di dare adito a speculazioni, e che, anche in questo caso, è fonte di numerosi paradossi. Cosa fare per esempio con i meticci? Si dovranno pagare due polizze, ciascuna relativa alle due razze incrociate? E le persone che hanno più di un cane? E quelle che vivono in strada con i cani? Le cose urgenti da fare sono già da tempo sul tavolo: far rispettare efficacemente le leggi esistenti e affrettare l’approvazione definitiva di quella contro i maltrattamenti che dorme ancora in Parlamento”.