Referendum sull’acqua: votare sì o votare no?

Il 12 e il 13 giugno siamo chiamati alle urne per esprimere un’opinione anche sulla cosiddetta privatizzazione delle risorse idriche. I due quesiti (scheda rossa e scheda gialla) sono complessi. Per andare a votare informati, Galileo ha chiesto aiuto a due tra le maggiori associazioni ambientaliste, WWF e Amici della Terra, che sulla questione hanno opinioni opposte.

Gli investimenti dello Stato nella rete idrica si sono ridotti drasticamente negli ultimi quindici anni: dall’equivalente di due miliardi e mezzo di euro l’anno ad appena 700 milioni. Decisamente insufficienti per rimettere in sesto quei 320.000 chilometri di tubature colabrodo che producono una perdita di 47 litri di acqua per ogni cento erogati (vedi Galileo). Ovviamente è una media: dai tubi pugliesi, per esempio, – gestiti da una società privata fino a poco tempo fa, e ora di nuovo amministrati dal pubblico – fuoriesce ben l’87% dell’acqua che dovrebbe arrivare ai cittadini. La situazione non è più rosea sul fronte della depurazione, soprattutto al Sud. Per il governo, la soluzione è aprire totalmente le porte alla privatizzazione di tutti i servizi che riguardano l’ambito idrico (già cominciata con la Legge Galli, 36/1994). La legge che accelererà questo passaggio è il cosiddetto Decreto Ronchi (legge 133/2008), effettivo dal 1 gennaio 2012: l’acqua e gli acquedotti resteranno pubblici, ma a gestirli sarà una società privata o mista pubblico-privata; solo in determinati casi potrà essere una società pubblica.

La decisione, però, non è piaciuta a un milione e quattrocentomila persone, che hanno chiesto un referendum abrogativo, convinti che i privati non siano per forza di cose più bravi a mettere i tappi nei buchi delle tubature, e spaventati da un incontrollato aumento della bolletta. Il punto è: le logiche, legittime, del profitto possono sposarsi con quelle della conservazione e la gestione di una risorsa primaria, vitale e sempre più scarsa come l’acqua? Wwf e Amici della Terra, due delle più influenti associazioni ambientaliste, hanno posizioni contrastanti. Galileo ha intervistato i rispettivi consiglieri nazionali, Dante Caserta e Sergio Gatteschi, per capire le ragioni di entrambe, in attesa del voto.

Il primo quesito riguarda l’articolo 23 bis del decreto Ronchi (legge 133/2008): se vince il no, e la legge resterà così come è, i Comuni saranno ancora liberi di decidere tra gestione pubblica, privata e mista?

Wwf: “No. Prima di questa legge i Comuni erano liberissimi di scegliere tra gestione pubblica, gestione di tipo privatistico (cioè S.p.a. ma a totale capitale pubblico, ndr), mista pubblico-privata o totalmente privata. Tanto che la gestione di 6 dei 92 Ato (Ambiti di gestione ottimale, ndr) è già stata affidata completamente a privati e altri 12 sono miste. Il comma 2 dell’articolo 23 bis, invece, obbliga di fatto tutti i Comuni a una gestione totalmente privata o pubblico-privata. In quest’ultimo caso, la partecipazione dei privati dovrà essere minimo al 40%; se la società è quotata in borsa, si sale a un minimo del 70% (comma 8, ndr). Si tratta di percentuali che all’atto pratico garantiscono ai privati il controllo del bene. Se vince il no, o se non si raggiunge il quorum, la gestione sarà in mano ai consigli di amministrazione di multinazionali che avranno come unico fine il profitto, e non ai nostri rappresentanti, scelti con le elezioni comunali”.

Amici della Terra: “Sì. La legge non obbligherà a passare a una gestione mista o privata quelle aministrazioni che abbiano affidato i servizi a società interamente pubbliche, se questo era giustificato dalla situazione del territorio, e quelle che abbiano affidato i servizi nel rispetto dei principi delle gare pubbliche per la scelta dei partner industriali, come è successo in Toscana, dove gli affidamenti sono già misti. Se i comuni che gestiscono in proprio la rete idrica – con il cosiddetto ‘in house’ – garantiscono una gestione virtuosa, potranno continuare a farlo”.

State dicendo due cose opposte: sarà possibile o no lasciare la gestione totalmente in mani pubbliche? 

Wwf: “Non in via ordinaria, ma solo in deroga (comma 3, ndr). Potrà restare in mani pubbliche solo per – cito testualmente la legge – ‘situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato […]’. Moltissimi Comuni credono di rientrare in questa eccezione. Ma il testo dice chiaramente che questa possibilità riguarderà solo casi residuali, riservati a quelle situazioni in cui i privati non avrebbero alcun vantaggio economico. Altrimenti, perché non lasciare la gestione pubblica tra le opzioni ordinarie, invece che inserirla come deroga? È una farsa”.

Amici della Terra: “Come ho già detto, sì, se vi sono le condizioni per cui può restare o ridiventare pubblica, tanto è che in Puglia si è da poco tornati sotto il pubblico. È vero che i commi 3 e 4 fissano dei paletti e dicono che bisogna dare ‘adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’espressione di un parere preventivo’. Ma che male c’è in una legge per cui gli affidamenti diretti si possono fare solo se sono giustificati? I termini temporali del 31 gennaio 2011 e del 2012 per il passaggio alla gestione privata o mista (comma 8, ndr) si riferiscono in modo esplicito solo a chi non ha fatto le cose secondo le regole. Personalmente, non ho mai sentito, finora, di un comune o Ato costretto a dare la gestione della rete idrica a privati, o a modificare l’assetto societario, o a cominciare le procedure per tale passaggio. E non credo che situazioni virtuose come quelle di Milano saranno toccate. Chi ha barato e si è mosso senza evidenza pubblica dovrà invece adeguarsi. Tutta questa indignazione mi sembra fuori luogo”.

Il secondo quesito del referendum riguarda il Codice Ambiente (decreto legislativo 152/2006). In particolare, si chiede di cancellare la frase del comma 1 dell’articolo 154 per cui la tariffa per il servizio idrico deve essere determinata tenendo conto dell’ ‘adeguatezza della remunerazione del capitale investito’. Perché la si vuole abrogare?

Wwf: “Qui si parla di almeno il 7% di profitto garantito dalla gestione delle condutture (la percentuale è indicata in base al D.M. 1/08/961 “Metodo Normalizzato per definire le componenti di costo e determinare la tariffa di riferimento”, ndr). Significa che chi vincerà la gara pubblica potrà poi aumentare la tariffa proposta di almeno il 7%. Il punto è che questo avverrà indipendentemente dal fatto che la società apporti realmente delle migliorie al servizio o meno. Cancellare questa frase avrà poi un effetto a lungo termine più importante: quello di disincentivare i privati. L’impossibilità di fare profitti, infatti, rende il settore meno appetibile per il privato che, seppur legittimamente, ha un altro fine che non quello di preservare un bene. WWF è assolutamente d’accordo con Amici della Terra sul fatto che l’acqua vada pagata, ma pensiamo che vada colpito prima di tutto lo spreco, e non vediamo come il privato possa sposare questa logica con quella del profitto. Noi pensiamo che si debba pagare solo il costo reale dell’acqua: non si deve fare profitto su un bene comune come l’acqua”.

Amici della Terra: “Questo quesito è ancora più autolesionista dell’altro, e dietro vi è una presa di posizione solo ideologica. Infatti è falso fin dal titolo: le sette parole che si vogliono eliminare sono all’interno di un comma molto più complesso, secondo cui la tariffa sarà determinata ‘tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio chi inquina paga. In Italia, per mettere a posto la rete e i depuratori bisogna investire tra i 60 e i 70 miliardi di euro. Dove li prendiamo? I Comuni non hanno i soldi necessari. Se non è assicurata una remunerazione, viene meno il denaro per gli investimenti necessari. Perché poi il recupero non dovrebbe essere adeguato al costo del capitale investito? Il Comune di Firenze, per portare un esempio di come invece possono andare le cose, ha ricavato due milioni di euro dalla gestione dell’acqua (detenendo il 60% della società, ndr). E lì il servizio costa circa 240 euro l’anno: un prezzo assolutamente sostenibile”. 

Temete un aumento incontrollato delle tariffe? 

Wwf: “Sì. Per avere quei 60-70 miliardi che servono per riparare la rete idrica, i privati potranno accedere ai mutui delle banche, che però hanno tassi elevati; per forza di cose, poi, si dovranno rivalere sui cittadini. Anche per questo riteniamo che obbligare a una gestione privata non sia la strada da seguire per rimettere in sesto la nostra rete idrica. È vero che in molti casi la gestione pubblica è stata fallimentare, ma è altresì vero che la privatizzazione – dove è stata realizzata – non ha ancora portato alcun beneficio. Inoltre, i due Ato più cari in Italia sono di fatto a gestione privata: dal 2002 a oggi si è passati da 182 euro l’anno ad abitante a 300, con un aumento del 65%. A questo si aggiunga che il libero mercato, in realtà, non esiste se non nel momento della gara. Una volta che la gestione è stata assegnata, io cittadino non posso certo scegliere tra due tubature o tra due acquedotti. Privatizzare questo settore non apre alla concorrenza, ma semplicemente sostituisce un monopolio privato a un monopolio pubblico”.

Amici della Terra: “No. L’acqua è e resta gratis. Oggi, la bolletta costa in media 70 centesimi al giorno per famiglia, cioè meno di un caffè: mi sembra più che ragionevole come prezzo, per far arrivare nei nostri rubinetti acqua pulita e restituirla tale all’ambiente. Il profitto tanto temuto è in realtà calmierato, e le tariffe le decidono i Comuni, in quanto proprietari del bene che danno in gestione. Personalmente, non vedo nessuna speculazione: il controllo dell’acqua resta pubblico e i Comuni fissano e fisseranno le tariffe in accordo con i migliori offerenti. Se le società non rispetteranno i termini, il contratto potrà essere sciolto. Se ci saranno degli aumenti dipenderanno solo dagli interventi necessari. A Milano, dove l’acqua di falda è già buonissima, non si richiedono grandi investimenti; sull’Arno, invece, sono stati necessari ingenti investimenti per la potabilizzazione e la depurazione, e molti altri saranno necessari. In Italia, attualmente, in alcuni Comuni l’acqua viene restituita all’ambiente depurata al 90%, in altri invece solo al 60%, e i depuratori costano. Chi può permettersi di dare il suo contributo, perché non dovrebbe pagare una tariffa per coprire questi costi? Per chi non può, invece, ci sono già delle agevolazioni previste nei contratti Ato”.

Credit immagine: crema.stere (Flickr)

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