Anziché parlare di sovraffollamento (vedi Galileo, Le prigioni malate) questa volta affrontiamo il tema delle carceri italiane sotto un altro punto di vista: quello dell’imprenditoria e dell’economia sostenibile. Le parole chiave sono occupazione, professionalità, riabilitazione. Ma anche mercato, business, profit. L’occasione è la presentazione – a Roma nei giorni scorsi – di Sigillo, la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute. Un esperimento primo in Italia e in Europa, per curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato nei laboratori sartoriali dalle donne detenute in alcuni dei più affollati penitenziari italiani.
Quello dietro le sbarre è un mondo che ha idee, e che vuole rispettare la legalità creando occasioni di riscatto. “Il nostro obiettivo”, spiega Giovanni Tamburino, a capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia, “è quello di ridurre l’innaturalità della situazione carceraria, come in effetti è il privare una persona della sua libertà personale”. E il lavoro è una tappa importante verso questo traguardo. Soprattutto una volta fuori dalla cella. “La vera uscita dal carcere non è il fine pena”, continua Tamburino, “ma arriva quando si sa provvedere a sé stessi. Quando si prova la fatica ma anche la soddisfazione del lavoro. Quando si raggiunge un’autonomia economica che consente di non rientrare nel giro della malavita”.
In effetti, dicono le statistiche del Ministero, imparare un mestiere dietro le sbarre consente di limitare al 10 per cento il rischio di recidiva. Dunque il lavoro come investimento per la sicurezza sociale, come “vaccino” contro le ricadute: ma un lavoro vero, non assistenzialistico. Che dia vita a un prodotto spendibile sul mercato, con una sua logica economica, sostenuto da una strategia comunicativa efficace. Ecco perché dell’agenzia faranno parte esperti di queste diverse aree, con il compito di gettare un ponte tra il mondo profit a quello non profit, e conciliare il business con il rispetto delle persone: sviluppando progetti imprenditoriali, e consentendo alle aziende di trovare nel carcere un luogo dove investire risorse.
Al progetto hanno già aderito 14 laboratori sartoriali attrezzati in altrettanti penitenziari italiani, e cinque cooperative sociali attive nei carceri di San Vittore e Bollate, al Lorusso-Cotugno di Torino (ex carcere di Vallette), e negli istituti penitenziari di Lecce e Trani. L’offerta è ampia: non soltanto magliette, felpe e cappellini, ma anche biancheria per la casa, con tovaglie, asciugamani, grembiuli, e ancora borse, porta cellulari e contenitori in stoffa per prodotti.
Al centro del progetto ci sono le donne. Quasi tremila potenziali lavoratrici pronte a dimostrare di essere in grado di ricucire la propria vita e il proprio futuro, come sottolinea il direttore generale dell’agenzia Luisa Della Morte. Perché ago e filo? Perché, dopo tre anni e mezzo di ricerche nelle sezioni femminili degli istituti penitenziari, appare chiaro come più della metà delle detenute sappia cucire, ma solo il 5 per cento possa contare su vere e proprie opportunità lavorative offerte da aziende e imprese sociali. “Un dato”, conclude Della Morte, “che sottolinea in maniera evidente il disagio ancora oggi vissuto dalle donne all’interno di un’istituzione, quella carceraria, nata dagli uomini per gli uomini”.
Credits immagine: Progetto Sigillo
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ricucirsi la vita dietro le sbarre. Bellissima iniziativa veramente
lodevole. Diciamolo a numerose nostre industrie manifatturiere
invece di delocalizzare, rimangono in Italia e possono investire
in questo progetto. Sperando che il nostro Stato come al solito
non diventi una difficoltà eccessiva come di solito è abituato ad
essere. Ma proviamoci, coraggio Grazie per avermi letto.
Edoardo