Sclerosi multipla, l’accesso alle cure è un puzzle

Dieci nuovi farmaci nei prossimi cinque anni: immunomodulatori, immunosoppressori e anticorpi monoclonali per rivoluzionare il trattamento dei malati con sclerosi multipla. Farmaci preventivi, in grado di scongiurare l’insorgenza di nuove lesioni a livello del sistema nervoso e di ritardare lo sviluppo della disabilità: risparmiando sull’assistenza sanitaria e riguadagnando il paziente dal punto di vista produttivo e sociale. Si è parlato di questo oggi Roma in occasione dell’incontro promosso dall’Osservatorio Sanità e Salute sul tema dell’accesso sostenibile all’innovazione, prendendo come caso simbolo quello della sclerosi multipla. L’innovazione terapeutica però sarà veramente tale solo se coinvolgerà tutte le regioni italiane, nelle stesse modalità e con gli stessi tempi, recuperando il ritardo accumulato in termini di disparità di accesso alle cure esistente oggi sul territorio nazionale.

Come ha infatti dichiarato Federico Spandonaro, docente di Economia Sanitaria all’Università di Roma Tor Vergata: “Nel nostro paese il 9% dei pazienti in cura per la sclerosi multipla viene trattato con i farmaci più innovativi: un dato che varia molto nelle diverse regioni, con punte al di sotto della media nazionale, per esempio in Campania, con il 4,7%, in Sicilia, con il 7,8%, in Toscana, con il 5,6%, in Veneto, con il 6,5%, in Emilia Romagna e nelle Marche, dove rispettivamente si ha il 7,2% e il 7,3%”. Alla base di queste diseguaglianze non ci sarebbero fattori epidemiologici, quanto piuttosto difficoltà derivanti dal misurare e riconoscere l’innovazione, come ha sottolineato Spandonaro: “Un problema che si manifesta al momento dell’introduzione di un nuovo farmaco. Per esempio, il primo anticorpo monoclonale per la sclerosi multipla (il natalizumab, ndr) ha segnato un ritardo che, a seconda delle regioni, è stato di due fino a dodici mesi, come accaduto in Sicilia”.

E la disparità nell’accesso alle cure non riguarda soltanto i farmaci. È il caso del Friuli Venezia Giulia, regione che ha risposto alla circolare 1685 del Ministero della Salute – quella secondo cui la CCSVI (vedi Galileo) non può considerarsi una patologia, quindi non operabile dal Servizio Sanitario Nazionale – sospendendo gli interventi di disostruzione venosa nelle aziende ospedaliere universitarie di Trieste e Udine. A denunciare quanto accaduto nel Friuli Venezia Giulia e a chiedere il ripristino degli interventi, è il consigliere del PD Paolo Menis, portavoce delle associazioni di pazienti locali che per ricorrere all’operazione oggi si recano in altre regioni, spesso anche oltre confine.

 

Riferimenti: Osservatorio sanità e salute

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