Scienziati, non fidatevi troppo dei topi geneticamente modificati. Il monito, lanciato dalle pagine di Public Library of Science (Plos), è rivolto alle migliaia di ricercatori che in tutto il mondo utilizzano i cosiddetti “knockout mice”, cavie prive del gene interessato nello sviluppo della patologia in esame. I risultati ottenuti in laboratorio non possono essere infatti attribuiti esclusivamente ai geni mancanti. Ne sono convinti gli autori di uno studio, guidato da Ann Baldwin, professoressa di fisiologia e psicologia all’Università dell’Arizona, che ha dimostrato quanto il fattore ambientale possa influenzare gli esiti di un esperimento. A volte addirittura compensando i difetti determinati dalle mutazioni genetiche.
L’équipe di Baldwin ha messo a confronto due gruppi di topi, entrambi privati di una copia del gene che codifica per la fibulina-4, una proteina che garantisce l’integrità delle pareti dell’aorta. Gli animali erano in condizioni ambientali differenti: i primi in una gabbia che ospitava quattro esemplari, di 26 centimetri di lunghezza, 16 di profondità, 12 di altezza, gli altri alloggiati in gabbie singole di 33 x 25 x 25 con all’interno una scaletta, una ruota e un tubo di plastica. All’inizio dell’esperimento tutti i topi presentavano le stesse lesioni del tessuto arterioso, cento volte superiori rispetto agli animali sani. E tutti quindi erano in egual misura geneticamente predisposti alla patologia.
Ma, alla fine, i topi vissuti tra i comfort si sono ammalati meno, presentando un numero molto inferiore di lesioni. L’esercizio fisico, svolto per il 40 per cento della loro permanenza in gabbia, li ha fatti ingrassare la metà rispetto ai loro simili meno fortunati e più statici, che mostravano un eccessivo accumulo di grasso sulle pareti dell’aorta. I geni quindi contano sì, ma fino a un certo punto, e gli scienziati, secondo il team di Baldwin dovrebbero tenerlo presente nel valutare i risultati delle loro ricerche. (g.d.o.)
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