Stringhe da laboratorio

Sono giovani, sono fisici teorici e il loro lavoro li ha già portati sulle pagine dei giornali. Ma se il loro progetto verrà realizzato e avrà successo potrebbero diventare davvero famosi. Lei si chiama Lisa Randall e lavora all’Università di Princeton, lui Raman Sundrum ed è in forza alla Stanford University. I due hanno ideato un esperimento che per la prima volta potrebbe testare sperimentalmente una delle teorie più affascinanti, ma anche controverse, della fisica moderna: la cosiddetta teoria delle superstringhe. Per ora si tratta solo di un progetto e per vederlo realizzato bisognerà attendere che i grandi acceleratori di particelle di ultima generazione, come il Tevatron del Fermilab di Chicago (http://www.fnal.gov/ ) o l’Lhc del Cern (http://www.cern.ch/) a Ginevra, vengano ultimati.

L’ipotesi delle superstringhe è nata attorno alla metà degli anni Settanta ed è un tentativo per realizzare uno dei grandi sogni inseguiti dai fisici, per primo Albert Einstein che vi dedicò oltre trent’anni: unificare tutte le forze conosciute in natura sotto un unico tetto. La teoria propone uno scenario piuttosto bizzarro secondo cui le particelle elementari del nostro universo non sarebbero piccoli punti, ma piuttosto sottili tubicini, microscopiche cannucce estremamente arricciate e ripiegate su loro stesse. Appunto delle superstringhe. La teoria si complica perché queste stringhe vivrebbero in uno spazio a nove o addirittura dieci dimensioni. Le dimensioni extra sarebbero però sottilissime, curve, molto “raggomitolate” e per questo non percepibili nel mondo macroscopico.

Il grande problema – oltre a immaginare questo mondo microscopico e complicato – è trovare un modo per verificare la teoria. Infatti, più sono piccoli gli oggetti da indagare, maggiore è l’energia necessaria per studiarli e più grande l’acceleratore che può produrla. Nel caso delle superstringhe servirebbe un acceleratore di particelle grande quanto tutta la nostra galassia.

Randall e Sundrum hanno proposto un esperimento che potrebbe aggirare questa difficoltà. Il loro lavoro si basa su un’idea che già circolava tra i fisici (vedi l’intervista a Giancarlo Rossi e Massimo Bianchi dell’Università di Tor Vergata): almeno una delle dimensioni extra sarebbe abbastanza grande da poter essere testata in un laboratorio di dimensioni “terrestri”. Le energie in gioco sarebbero infatti dell’ordine dei Tev (mille miliardi di elettronvolt), proprio quelle che potranno produrre gli acceleratori in costruzione a Ginevra e Chicago. “Finora potevamo giudicare solo la validità matematica delle superstringhe”, afferma Joseph Lykken, fisico teorico del Fermilab di Chicago, “ora le cose cambiano: tutto ciò di cui abbiamo parlato in questi anni diventa verificabile e per i fisici sperimentali è un giorno di festa”.

Tuttavia, la teoria di Randall e Sundrum non è meno complicata della precedente. Secondo i due scienziati il nostro universo spaziale (trascurando cioè il tempo, che per Einstein costituisce un’ulteriore dimensione) sarebbe solo una piccola isola tridimensionale immersa in un mare sterminato a quattro dimensioni – chiamato “Megaverso” – nel quale si troverebbero molti altri universi, ciascuno regolato da leggi fisiche proprie e del tutto isolato dagli altri. O quasi: “Questi universi paralleli sono reciprocamente invisibili, possono comunicare solo attraverso la forza di gravità”, spiega infatti Sundrum. Insomma: la comunicazione con gli altri universi avverrebbe grazie ai gravitoni, le particelle messaggere della forza di gravità, le uniche in grado di affrontare il Megaverso e visitare altri universi. E tornare indietro.

Siccome questo complesso quadro è stato ricavato partendo dalla teoria delle superstringhe, osservare un gravitone in laboratorio sarebbe una prova sperimentale, sebbene indiretta, della teoria stessa. Ed è proprio ciò che progettano Randall e Sundrum. I ricercatori hanno ipotizzato che, facendo scontrare un protone e un antiprotone, si assisterà a un fenomeno di “missing energy”: l’energia dopo lo scontro sarà cioè più piccola che all’inizio. E l’energia mancante sarebbe proprio quella di un gravitone creato nell’impatto e sfuggito al nostro universo.

Se tutto ciò si realizzasse, le implicazioni sarebbero da capogiro. Oltre alla prova sperimentale della teoria delle superstringhe, per la prima volta ci sarebbe l’evidenza che i gravitoni esistono. Che già di per sé è una scoperta da premio Nobel. E infine si dimostrerebbe che il nostro è solo uno dei numerosi universi paralleli possibili. Ma niente facili entusiasmi, come avverte Roberto Iengo docente di Teorie quantistiche e coordinatore del settore Particelle elementari alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa – http:// www.sissa.it/) di Trieste: “Per giustificare investimenti da migliaia di miliardi – come quelli per il Tevatron – servono argomenti “forti”, in grado di conquistare le prime pagine dei giornali. E la caccia agli universi paralleli potrebbe essere uno di questi. Attenzione, insomma, alle forzature”.

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