Un tocco transatlantico

Mani che si sfiorano da un capo all’altro dell’oceano. Fantascienza? Allegoria di un amore platonico? Niente di tutto questo, perché il “contatto” è avvenuto davvero. A permetterlo un software di interfaccia cosiddetta “tattile”. Frutto dello sforzo congiunto di un’équipe di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston e di alcuni loro colleghi dello University College di Londra (Ucl). Se la realtà virtuale ci ha abituato alla simulazione, permettendoci di vedere e di ascoltare ciò che reale non è o che lo è solo in potenza, e se Internet ha accorciato le distanze con l’e-mail, Internet2 (la cosiddetta seconda generazione di tecnologie della Rete) ha fatto molto di più. Grazie ai cavi a fibre ottiche, a bande di frequenza sempre più larghe e a particolari dispositivi di simulazione, è stato possibile trasmettere lungo i sentieri del network impulsi tali da ricreare il senso del tatto, sia pure a 5000 chilometri di distanza, tanto misura la tratta Boston-Londra. “Strabiliante”, è stato il commento di Jung Kim, studente del Mit che ha partecipato all’esperimento. Alle prese con una sorta di braccio robotico, detto Phantom, collocato al posto del mouse. Davanti a sé, sullo schermo del computer, una stanza a tre dimensioni con al centro una scatola cubica nera e due frecce a indicare la posizione sua e del collega britannico. I due, manipolando il Phantom, ovvero stringendone la sottile estremità, hanno tentato di sollevare il cubo. E proprio qui, la sorpresa: non appena il ricercatore del Mit muoveva il braccio meccanico per toccare la scatola, non solo poteva “sentire” l’oggetto virtuale, ma era anche in grado di percepire la forza risultante dalle manipolazioni tentate dall’altra persona sul medesimo oggetto. Stesse sensazioni per colui che si trovava allo University College londinese.La cosiddetta “Haptic interface” (il cui nome deriverebbe dal termine greco che significa “afferrare”) è, tuttavia, una tecnologia solo relativamente nuova. “Questo tipo di interfaccia che permette di interagire con il senso del tatto per mezzo di un calcolatore, infatti, è presente sul mercato già da 5-6 anni a disposizione soprattutto di chi lavora in ambito informatico”, spiega Franco De Angelis, ricercatore del gruppo Kaemart (Knowledge Aided Engineering, Manufacturing and Related Technologies), un gruppo di studio fondato e coordinato da Umberto Cugini, professore ordinario presso il dipartimento di Ingegneria meccanica del Politecnico di Milano. “Il Phantom, sviluppato all’inizio degli anni Novanta da Thomas Massie, ricercatore del Mit e fondatore nel 1993 delle SensAble technologies, è il dispositivo più utilizzato nei laboratori perché è il più generico e per questo programmabile dai ricercatori come essi vogliono (noi del gruppo Kaemart ne abbiamo comprato uno nel 1996), ma non è l’unico a disposizione a tale scopo. Per esempio, pochi pensano che molti videogame simulano la guida di automobili il cui sterzo è con ritorno di forza (e molti joystick venduti nei supermercati degli Stati Uniti per pochi dollari presentano questa caratteristica)”.Lo stesso Mandayma Srinivasan, coordinatore del gruppo del Mit, ha infatti utilizzato un normalissimo Phantom, salvo poi scrivere, ed ecco la novità che ha fatto parlare i media di primo “tocco umano transatlantico”, un nuovo software per comunicare in rete a quella distanza. Gli utenti hanno potuto così “sentire” sulle proprie dita la pressione di una forza controllata, molto vicina alla sensazione dataci dall’atto del toccare e da quello dell’essere toccati. Complice la connessione tra i due Phantom e il passaggio in rete di piccoli impulsi a una frequenza superiore a 1.000 Hertz. A imitazione dell’alta frequenza che caratterizza gli impulsi naturali inviati dal cervello alle mani e viceversa. “Premendo sull’estremità del Phantom”, spiega Mel Slater, leader del team dell’Ucl, “si inviano in Internet questi impulsi, ovvero i dati che rappresentano quelle forze interpretate poi dal Phantom dell’altro utente, e quindi da questo percepite”.Le applicazioni pratiche promettono di coinvolgere diversi settori: dalla telemedicina alla possibilità per architetti, designer e scultori di cooperare a una creazione artistica, fino all’opportunità per gli studenti di poter sentire seduti sui banchi della propria classe le forze interne al nucleo di un atomo. “L’applicazione principale”, afferma De Angelis, “sarebbe ovviamente quella delle telechirurgia, seguita dalle utilizzazioni in ambito militare e industriale. Grazie alla cosiddetta telemanipolazione remota si potrebbe utilizzare l’abilità di un operatore non presente, perché fisicamente distante o per la pericolosità della situazione (si pensi allo sminamento o alla riesumazione dei resti bellici), e sfruttare la percezione tattile permessa dal dispositivo per dosare la forza (si pensi a un chirurgo che deve usare il bisturi)”. Ma per quanto allettanti, tali prospettive, sono ancora molto lontane.L’ostacolo principale è la scarsa affidabilità di Internet “che perlomeno allo stato attuale”, continua il ricercatore, “non offre la costanza di prestazioni richiesta per compiti delicati come la chirurgia remota. Se d’improvviso la Rete non funzionasse cosa potrebbe fare il chirurgo? Non a caso la teleoperazione in remoto, già esistente, è pilotata da un medico che si trova a pochi metri dalla stanza del paziente nello stesso edificio”. E poi, oltre alla disconnessione, potrebbero insorgere problemi non indifferenti di traffico e dunque la possibilità di incorrere in lunghi ritardi tra l’invio e la ricezione del segnale. Srinivasan, nonostante tutto, è ottimista: “Neanche quando si tocca qualcosa nella realtà i segnali arrivano immediatamente al cervello”. Infatti, normalmente trascorrono 30 millisecondi. Molto meno è vero dei 150-200 millisecondi della connessione occorsa dal Mit all’Ucl, “ma se il tempo di collegamento in Rete”, conclude lo studioso “potesse arrivare a essere inferiore a quei 30 millisecondi, Internet sarebbe, per così dire, molto naturale”.

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