Una voce dal Ruanda

“Mi affacciavo alla finestra di casa e contavo i cadaveri. Sulle rive del lago Kiwu se ne ammassano a decine ogni settimana”. A parlare è Roberto Mauri, infermiere, appena sbarcato a Roma dopo sei mesi di missione in Ruanda per conto di Médecins sans Frontières (Msf). Responsabile del più grande orfanotrofio della provincia di Gisenyi, a nord ovest del paese, vuole raccontare l’esperienza più sconvolgente della sua carriera, in un paese dove nel silenzio quasi assoluto della comunità internazionale i massacri continuano. E Galileo raccoglie la sua testimonianza.

Cosa ha visto a Ginsenyi?

“Sono arrivato a gennaio e all’inizio avevo l’incarico di gestire due centri per ‘bambini non accompagnati’, che accolgono orfani, bambini abbandonati e quelli che hanno perso i contatti con la famiglia tra il ‘94 e il ‘96, durante gli spostamenti seguiti al genocidio. All’epoca non immaginavo che il Ruanda fosse un tale inferno, una polveriera che sta per scoppiare. A poco a poco mi sono reso conto che a Gisenyi c’è un sistema che si regge sul terrore. La gente comune viene prelevata da casa e fatta sparire: ho visto con i miei occhi le grotte dove le persone vengono murate vive. Alcuni dipendenti del mio orfanotrofio si sono visti portare via fratelli e genitori senza motivo. L’accusa del governo è che la popolazione dà appoggio ai cosiddetti infiltrati, terroristi di etnia hutu che compiono stragi nei villaggi per destabilizzare il governo, retto dai tutsi, a loro volta vittime del primo genocidio. E così, i civili sono di fatto vittime dei terroristi e vittime dell’esercito. E’ nel fine settimana che si consumano i massacri sulle colline della prefettura di Gisenyi. Il martedì contavo i morti sulla spiaggia. I cadaveri vengono buttati nel fiume Sebeya che li porta al lago Kiwu, da dove giungono a riva. Durante le mie ultime settimane di permanenza scavalcavo montagne di cadaveri, alcuni quasi mummificati, altri mangiati dai falchi, altri freschi appena arrivati. Ogni tanto arriva un camion di militari a pulire la spiaggia, ma il ritmo è incalzante, e durante i miei sei mesi di permanenza la situazione è precipitata. All’inizio, poco dopo il mio arrivo, sono andato dal prefetto per denunciare il fatto, ma lui negava l’evidenza. Allora ho cominciato a capire: l’unica versione ufficiale è che la zona delle colline è pericolosa perché ci sono gli infiltrati e non si è autorizzati ad andarci. Tutto qui”.

E nell’orfanotrofio?

“Nella prefettura di Gisenyi ci sono tre orfanotrofi, per un totale di 793 posti, ma i bambini effettivamente ospitati sono almeno 200 di più. Nell’ultimo mese si presentavano alla porta del centro una media di sette bambini alla settimana, come effetto dell’escalation della violenza nei villaggi. I nuovi arrivi erano i più difficili. Mi ricordo di Musé, circa quattro anni, che appena arrivato non parlava, anche se non era sordo. Un’altro, Clement, era al limite della malnutrizione. Lui parlava un po’, ma era una candela spenta: se lo mettevi a guardare un angolo lui stava lì ore e ore, anche tutto il pomeriggio. All’interno dell’orfanotrofio mi curavo non solo dell’aspetto medico, ma soprattutto di quello psico-pedagogico e sociale dei bambini. In questo senso, posso dire che la missione sia riuscita. Il penultimo giorno a Gisenyi abbiamo fatto una festa, con carne di capra e patate, e una radio per la musica. Abbiamo passato tutto il pomeriggio con i ragazzi. E’ incredibile quanto la musica abbia potuto abbattere un muro presente da mesi. Nel centro non c’è la corrente, e non si potevano avere pile ogni giorno. Clement, che di solito era come un soprammobile, ha cantato e ballato tutto il tempo. E invece del pane bianco, l’unico cibo che accettava da mesi, ha mangiato carne di capra e patate. Per me questo è un successo, perché credo sia importante vincere con le persone singole. Ma sono anche molto a disagio perché ora i bambini sono stati abbandonati”.

Che vuol dire?

“Dal 30 giugno Msf si è ritirata dalla missione in Ruanda. L’accordo col ministero degli Affari Sociali ruandese valeva per un periodo quattro anni, rinnovabile. I quattro anni sono trascorsi e si stava già negoziando per i successivi, ma dopo alcuni gravi incidenti in seguito al licenziamento di 110 dipendenti del centro, il capo missione non se l’è sentita di lasciare in pericolo i suoi compagni. La decisione di ritirarsi è assolutamene condivisibile: a Gisenyi, Msf sta sulla linea di un fronte senza però seguire programmi di natura medica. Pertanto la sua vocazione è in qualche modo svilita. Se non c’è un beneficio diretto sulla vita di qualcuno, non vale la pena rischiare la vita. Ma se penso che abbiamo lasciato 200 bambini al Ministero, che ha accettato di occuparsene solo perché l’Alto commissariato delle Nazioni unite ha messo a disposizione 60 mila dollari, sufficienti al massimo per sei mesi, provo un senso di fallimento. Per esempio, già dal primo di giugno gli adolescenti dell’orfanotrofio, dopo due anni di vita protetta, sono partiti per tornare sulle colline. Il Ministero ha dichiarato che sono in grado di ritrovare casa loro. Ma sono case di fango: se sono state abbandonate due anni fa non sono più in piedi e se qualcuno le ha occupate, di certo non le libera. Per i campi da coltivare è la stessa cosa. Un campo occupato non è praticabile e un campo libero è un campo di erbacce. Cosa fanno questi ragazzi senza casa e, nella migliore delle ipotesi, con un campo da disboscare? Per non parlare del fatto che sulle colline ci si ammazza a un ritmo spaventoso. I cadaveri non sono invenzioni”.

Cosa intende fare ora?

“Ho un progetto personale, indipendente dalle missioni di Msf, voglio tornare a Gisenyi da solo. Il ministero degli Affari Sociali ruandese mi ha detto che è possibile per un privato occuparsi di un orfanotrofio. C’è già un precedente, quello di una signora americana di novant’anni, di cui quaranta passati in Ruanda coltivando fiori, e che dal 1994 anni gestisce di tasca sua un orfanotrofio con 100 bambini. Vorrei fare la stessa cosa. Per questo progetto ho bisogno di circa 100 milioni: facendo molta economia, con 5000 dollari al mese nutro, vesto, lavo i bambini, e pago i dipendenti per un anno e mezzo. Durante questo periodo intendo anche avviare attività collaterali (agricoltura, allevamento, pesca, sartoria e servizio di taxi-minibus tra Kigali e Gisenyi) per rendere economicamente autonomo l’orfanotrofio. La mia idea è di insegnare un mestiere a quanti più ragazzi possibile e di far vivere il centro con il loro lavoro. In condizioni normali, questo può garantirnee il funzionamento. Con la guerra è tutto molto più precario: le cose vanno bene fino a quando non ti minano il campo, non ti rubano i minibus, o altro. Sono eventualità reali, ma è meglio non pensarci prima, altrimenti non si parte. Non partire, significa lasciare che ammazzino i miei bambini nell’arco di sei mesi e non voglio che succeda”.

Chi volesse aiutare il progetto di Roberto Mauri, può versare il suo contributo sul conto corrente

n. 900666/21
Banca del Credito Cooperativo di Carugate – Filiale di Bellusco

intestato a “Associazione Piccolo Principe”

Nella causale scrivere: Orfanotrofio del Ruanda

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