Violenza ostetrica, più rispetto per le donne con la ginecologia narrativa

violenza ostetrica
(Foto: freestocks su Unsplash )

La tragica vicenda del neonato morto soffocato al Pertini di Roma ha rilanciato il dibattito sulla cosiddetta violenza ostetrica, intesa come eccessiva medicalizzazione del parto, con imposizione di pratiche e regole che, senza reale motivo, rendono particolarmente traumatica, fisicamente e psicologicamente, l’esperienza di mettere al mondo un figlio. Pratiche ancora diffuse nel mondo e anche in Italia, anche in conseguenza di un certo atteggiamento “difensivo” del personale medico, come spiega in questa intervista il ginecologo Salvino Leone, esperto di medicina narrativa.

Ascolto, rispetto della persona, empatia: sono parole chiave in qualunque ambito della cura, ma diventano ancora più importanti quando si trattano aspetti della salute e della vita particolarmente sensibili e privati. È il caso della ginecologia, che si occupa della sfera più intima della donna, sia a livello fisico che psicologico e culturale, toccando temi come la sessualità, la riproduzione e la maternità. E proprio in questo campo emergono con più forza le lacune nel rapporto fra medico e paziente, soprattutto in un momento particolare della vita di una donna come quello del parto, carico di attese e paure. Un evento fisiologico, che però porta con sé il rischio di complicazioni, e soprattutto richiede maggiore sensibilità e capacità di comunicazione da parte del personale sanitario. Anche per evitare inutili stress o veri e propri abusi in sala parto, come ha denunciato l’ultimo Rapporto annuale della Relatrice Speciale Onu sulla violenza contro le donne.


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Il Rapporto, che raccoglie dati provenienti da oltre 18 fra organizzazioni governative, non governative, istituzioni indipendenti e accademiche di tutto il mondo, denuncia diverse pratiche e comportamenti irrispettosi della salute e della dignità della donna, con l’obiettivo di far riconoscere la violenza ostetrica come violenza di genere. E non manca uno sguardo alla situazione italiana: nel nostro paese sarebbero troppo diffuse pratiche mediche invasive come il parto cesareo e l’episiotomia, che, in quanto salvavita, andrebbero limitati a reali situazioni di rischio per la madre o il bambino.

L’allarme dell’Onu si inserisce in una polemica sul tema della violenza ostetrica suscitata nel nostro Paese da una indagine Doxa del 2018 commissionata dalle associazioni OVOItalia, La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus, e contestata dall’AOGOI, che ha risposto, insieme a Sigo e Agui, con un successivo studio che attesterebbe un’alta soddisfazione delle donne italiane per l’esperienza vissuta in sala parto. Tuttavia, pur contestando l’allarmismo sul tema della violenza ostetrica, anche L’AOGOI riconosce la necessità di migliorare da un lato i requisiti delle strutture preposte al parto, dall’altro il dialogo con le pazienti. Omni-news ne ha parlato con il professor Salvino Leone, che da anni si occupa di ginecologia narrativa ed è autore del libro La relazione medico – paziente per la salute della donna (CIC 2015).

Professor Leone, un dato è certo: nonostante il leggero calo degli ultimi anni, in Italia circa il 30% dei parti sono effettuati con taglio cesareo, con punte di oltre il 50% in alcune regioni del Sud: ancora troppi rispetto alle raccomandazioni dell’Oms. Come spiega questo fatto?

“È vero che c’è ancora un tasso elevato di cesarei, ma il problema è più complesso di come sembra. Soprattutto in Italia e in Europa in genere, è avanzato negli ultimi anni il fenomeno della medicina difensiva: per evitare processi e contenziosi, sempre più frequenti nel nostro settore, invece di intervenire in altri modi che potrebbero creare problemi al bambino, l’ostetrica preferisce optare per il cesareo”.

Un altra pratica di cui si discute è l’episiotomia. Anche questa, andrebbe riservata a situazioni di pericolo per la vita del bambino ma, secondo il rapporto Onu, viene praticata troppo spesso in Italia, quasi nel 50% dei parti. Molte pazienti denunciano inoltre di non essere state informate o di non avere ricevuto nessuna anestesia. Cosa ne pensa?

“Anche in questo caso sarei più prudente. Si tratta di un intervento profilattico, perché evita lacerazioni che possono insorgere se il feto è grosso. Di norma non dà dolore, perché viene fatto in anestesia locale o quando la dilatazione è così avanzata che non si avverte nemmeno. Se fatto bene, non provoca lacerazioni, le evita, anche se ovviamente non va mai fatto niente di immotivato. Si può discutere sulla questione del consenso, ma se il medico ritiene di farlo è giusto farlo, senza abusarne. Mi è capitato di vedere lesioni da parto che si potevano evitare”.

Anche L’AOGOI riconosce comunque la necessità di lavorare sul dialogo fra medico e paziente. La medicina narrativa può contribuire in questo senso?

“Certamente, infatti è proprio su questo che dobbiamo lavorare: sulla comunicazione prima e durante il parto. E ci vuole un profondo rispetto: anni fa scrissi un articolo per Medicina e Morale sull’umanizzazione del parto: mi chiamarono da una trasmissione Rai perché erano stati colpiti da un passaggio, quasi secondario, in cui sottolineavo l’importanza di dare del lei alla paziente in sala parto, e mi chiesero un’intervista di mezz’ora solo su questo. Evidentemente sembrava una cosa straordinaria”.

In che modo la narrazione può aiutare il rapporto fra medico e paziente?

“Perché ogni paziente, quando si presenta dal medico, porta non solo un problema, ma una narrazione, con i suoi generi letterari. C’è l’avventura della peregrinazione fra i diversi medici, c’è il giallo, il mistero dell’indagine, del paziente che esalta la sua ricerca della diagnosi. Ogni paziente narra qualcosa, e lo fa in modo diversificato: bisogna decodificare questo racconto. Non solo: la narrazione è duplice, perché anche il medico si racconta al paziente. La chiave sta nell’entrare in sintonia, e costruire un rapporto che diventa una grande narrazione”.

A proposito di storie personali, la ginecologia è forse uno dei campi più delicati della medicina, visto che entra in contatto con una sfera così personale e intima. Un approccio narrativo può aiutare a superare alcune inibizioni naturali nel rapporto con il medico, ad esempio nel caso delle adolescenti?

“Si, questo discorso è particolarmente importante nel caso delle adolescenti e delle pazienti più giovani in genere. Sicuramente c’è stato un cambiamento sociale e culturale, oggi spesso vengono accompagnate dalla mamma, che di solito sa che hanno rapporti sessuali, ma nonostante ci sia una maggiore apertura rimangono degli imbarazzi, non sempre si dice la verità. Un altro cambiamento importante a cui stiamo assistendo in questi anni è la maggiore frequenza con cui si incontrano le coppie omosessuali. Mi è capitato personalmente di fare una gaffe in questo senso, con una paziente che mi faceva domande sulla trasmissione di malattie per via sessuale, ho dato per scontato che volesse confrontarsi con suo marito o il suo compagno; la signora ha risposto tranquillamente che la sua compagna era seduta vicino a lei. Medicina narrativa significa anche questo, tenere conto dei cambiamenti sociali, dietro cui ci sono sempre le storie delle persone”.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su OmniNews, il giornale della medicina narrativa italiana.

Credits immagine: freestocks su Unsplash