L’afantasia, ovvero quando il cervello non sa immaginare

afantasia

Per iniziare il nostro viaggio per comprendere l’afantasia, pensate a un amico che incontrate spesso. Cosa visualizzate nella mente? Siete in grado di vederne i tratti somatici, la posizione della testa, le mani, la carnagione, i vestiti che indossa? Con quale livello di dettaglio? Oppure: pensate a un’alba: quale immagine si affaccia alla vostra mente? Con quale chiarezza siete in grado di visualizzare il sole che sorge, il cielo roseo, il paesaggio che comincia a illuminarsi, i dettagli che prendono colore? Le domande che vi abbiamo sottoposto fanno parte del cosiddetto Vividness of Visual Imagery Questionnaire (Questionario per la vividezza dell’immaginazione visiva, o Vviq), messo a punto nel 1973 dallo psicologo inglese David Mark per misurare le differenze individuali nella ricostruzione mentale delle immagini, ed è possibile che qualcuno di voi non sia riuscito a “vedere” assolutamente niente: questa condizione mentale si chiama afantasia, ovvero “l’incapacità del cervello di creare e visualizzare alcuna immagine, come se l’occhio della mente fosse completamente cieco”. Sebbene la comunità scientifica fosse al corrente dell’esistenza dell’afantasia già verso la fine del diciannovesimo secolo, è solo negli ultimi vent’anni che ha cominciato a studiarla in dettaglio, soprattutto grazie al lavoro di Adam Zeman, professore di neurologia alla University of Exeter, cominciato nel 2005; e pochi giorni fa proprio Zeman ha pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciencesuna nuova ed estensiva analisi del fenomeno, che mette insieme i risultati degli ultimi studi sul tema.

Quando è nato il concetto di afantasia?

Come ha raccontato Massimo Sandal su Esquire, l’afantasia è stata scoperta nel 1880 da Francis Galton, che chiese a diversi conoscenti di immaginare la scena della propria colazione e riportare quanto fosse vivida l’immagine che si presentava alla loro mente, e rimase stupito dall’estrema variabilità delle risposte che ottenne: alcuni sostennero di riuscire a vedere la scena in tutti i suoi dettagli, anche i più insignificanti, mentre altri si dissero candidamente convinti che “immagine mentale” fosse solo una metafora per descrivere un pensiero. Galton ne dedusse che doveva esistere una gamma molto estesa di immaginazione visiva, ai cui estremi ci sono quelli che Zeman chiama afantasia e iperfantasia.

“La vividezza delle immagini mentali varia molto da individuo a individuo” scrive lo scienziato “anche se l’esistenza di persone in cui le immagini mentali sono molto ridotte o completamente assenti, è stata a lungo trascurata dalla psicologia”. Stando agli ultimi dati, una quota della popolazione compresa tra l’1 e il 3% è affetta da afantasia o iperfantasia estreme, e una quota ancora più alta da forme più lievi delle condizioni.

“Negli ultimi dieci anni” ha detto Zeman alla Bbc “circa 17mila persone mi hanno contattato raccontandomi le loro esperienze. Quello che ho notato è che molti di loro sapevano di elaborare le informazioni in modo diverso rispetto alla norma, ma non sapevano spiegare come e perché”. Ecco, secondo lo scienziato il perché potrebbe essere legato a differenze individuali nella connettività tra regioni cerebrali: quando si chiede a qualcuno di immaginare una mela, il suo cervello deve anzitutto “ripescare” dalla memoria il concetto e il significato di mela, quindi ricordarne l’aspetto e attivare l’area cerebrale che lo deve ricostruire. L’afantasia potrebbe essere legata a un malfuzionamento in qualche punto di questa catena di operazioni: “In queste persone i pensieri rimangono pensieri, mentre per gli altri si trasformano in esperienze sensoriali”.

Le persone con afantasia riescono a sognare?

Pur non riuscendo a creare alcuna immagine da svegli, molti afantastici sono in grado di farlo mentre dormono. Sempre secondo l’esperto, questa differenza potrebbe essere legata al fatto che il sogno è “un’attività più spontanea che ha inizio molto più in profondità nel cervello”. Tra l’altro, la condizione potrebbe essere in qualche modo “utile”, per esempio offrendo una protezione rispetto alla salute mentale di persone che hanno vissuto esperienze spaventose o stressanti e che proprio in virtù del loro status di afantastici non riescono a rivederle nella propria mente. C’è qualcosa di ancora più paradossale: “La grande sorpresa – continua Zeman – è stato osservare che esistono anche artisti afantastici, per i quali l’impossibilità di visualizzare immagini mentali rappresenta un incentivo extra alla creatività, perché li spinge a usare la propria arte per rimpiazzare l’occhio della mente”. L’analisi dello scienziato, inoltre, ha mostrato anche che l’afantasia ha anche una componente familiare – chi ha un fratello o una sorella afantastica, per esempio, ha una probabilità dieci volte maggiore di avere la stessa condizione – e che potrebbe esserci (ma su questo le evidenze sono ancora molto deboli) anche una connessione con l’autismo. In ogni caso, il concetto chiave è che in casi come questo la diversità, o più precisamente la divergenza, non è da considerare in alcun modo un handicap: “La possibilità di visualizzare coscientemente immagini nella mente non è un prerequisito per le abilità cognitive. Ogni persona ‘disegna’ immagini nella mente in modo diverso dagli altri. L’esperienza personale non è la norma”.

Credits immagine: J. Balla Photography/Unsplash
Via: Wired.it