Ambasciatori del tricolore

E’ tramontata da tempo l’era dell’archeologo romantico alla Schliemann. E anche quella dello scavo selvaggio, fine a se stesso e incurante della sorte dei beni che venivano portati alla luce, come era cattiva abitudine fino a non molti anni fa. Ormai i governi dei paesi dove gli archeologi operano chiedono che lo scavo sia seguito da un’opera di conservazione del monumento e in genere anche di istruzione di tecnici locali. E anche il coro di coloro che tengono alto il nome della ricerca archeologica italiana nel mondo è unanime: non basta più solo scavare. Lo hanno ribadito durante un convegno organizzato il 22 gennaio scorso dal ministero degli Affari Esteri in occasione dell’uscita del volume promosso dallo stesso ministero “Missioni archeologiche italiane” (edito da “L’Erma” di Bretschneider). Del resto, oggi, l’archeologia si è trasformata in una scienza assolutamente interdisciplinare, che coinvolge geologi, biologi, antropologi, architetti, informatici, topografi, esperti di rilevamento satellitare e di realtà virtuale, chimici, fisici, studiosi di materiali e tecniche di costruzione.

Proprio per l’alto livello raggiunto nello studio delle tecnologie per la tutela dei beni culturali gli italiani sono richiesti in tutto il mondo. Questo non solo in virtù di una tradizione che risale al 1939 quando, per lungimirante intuizione di Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi, fu fondato l’Istituto Centrale per il Restauro, un’istituzione forse unica al mondo, ma anche per un motivo ben specifico. “In Italia possediamo il 60% di tutto il patrimonio culturale mondiale, che è continuamente sottoposto ad azioni particolarmente severe sia per la natura geologica del territorio che per la sismicità del paese. E, soprattutto dopo il terremoto dell’Irpinia, sono stati avviati in Italia studi sulla stabilità dei monumenti e la loro protezione dal rischio di terremoti, in cui nessun altro paese al mondo è esperto”. Queste parole sono di Giorgio Croci, titolare della cattedra di Tecnica delle costruzioni alla Facoltà di ingegneria dell’Università di Roma che, per citare un esempio tra molti, è stato chiamato dalle autorità egiziane dopo il terremoto del 1992 a studiare la stabilità della piramide di Chephren a Giza.

Tutte le attività di competenza del “nuovo archeologo” sono però necessariamente costose, e se pochi sono i fondi disponibili per tutelare i beni della penisola, ancor meno sono quelli a disposizione di chi vuole esportare il know how italiano all’estero e avviare scuole per la formazione di tecnici in loco. I nostri archeologi fanno la voce grossa, perché da quest’anno sia il ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica che il Cnr hanno addirittura ridotto i già miseri finanziamenti, e i pochi fondi in più dei 650 milioni attuali che il ministero degli Esteri potrà in futuro destinare all’archeologia sono ben poca cosa. Molti dei titolari delle oltre cento missioni italiane che svolgono ricerche in ogni angolo del pianeta (dal bacino del Mediterraneo al Medio e all’Estremo Oriente, dall’Africa Equatoriale alle Ande e la foresta amazzonica) temono dunque che il 1998 sancirà la fine delle loro missioni.

E più degli altri alzano la voce coloro che operano in paesi dove la presenza degli studiosi italiani, forte di un’attività di molti decenni, è ormai consolidata ed ha acquistato fama internazionale. Come il Pakistan, dove la missione IsMEO nello Swat è stata avviata da Giuseppe Tucci nel 1956. O l’Iraq, dove il Centro ricerche archeologiche e scavi di Torino è attivo sin dal 1964. O come la Libia e l’Egitto dove, per ragioni culturali non meno che politiche, l’archeologia italiana è un punto di riferimento importante. O la Turchia, dove dal 1957 è attiva a Hierapolis la missione del Politecnico di Torino, e quelle a Iasos di Caria e Arslantepe hanno preso avvio all’inizio degli anni sessanta. E negli stessi anni iniziavano gli scavi del professor Paolo Matthiae a Ebla. Decana delle ricerche archeologiche italiane all’estero è però senza alcun dubbio la Scuola archeologica italiana di Atene: fu fondata nel 1909 da Federico Halbherr, lo scopritore della grande epigrafe giuridica di Gortina, la regina delle iscrizioni greche.

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