Le ragioni di un successo a metà

Negli Stati Uniti è già una moda: un terzo della popolazione consuma abitualmente alimenti biologici, cioè coltivati e allevati senza l’uso di prodotti chimici di sintesi. Ma forse non tutti sanno che la gran parte dei cibi naturali immessi sul mercato americano ed europeo vengono dall’Italia. Le nostre coltivazioni biologiche infatti sono le più ricche in Europa quanto a produzione ed estensione. Delle 105 mila aziende “biologiche” europee, infatti, 50 mila sono italiane, con una superficie coltivata pari a un milione di ettari (il 6,5 per cento della superficie agricola del nostro paese) e una crescita dal 1996 a oggi del 53 per cento. Dunque: produciamo molto, esportiamo altrettanto, ma il vero problema è che consumiamo pochissimo.

“A frenare la diffusione del prodotto biologico sono i problemi di distribuzione e le carenze culturali”, afferma Vincenzo Vizioli, presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab). “Esiste ancora un problema di formazione e di informazione del consumatore”. E di fatto, per il pubblico di casa nostra c’è ancora molta confusione di termini tra prodotti biologici veri e propri, prodotti derivanti da agricoltura integrata e prodotti a residuo zero. Il vero prodotto biologico è quello che risponde ai canoni del Regolamento comunitario, secondo la legge 2092 del 1991, che vieta l’uso di qualsiasi prodotto chimico a partire dalla preparazione dei terreni coltivabili fino alla semina e al raccolto. L’agricoltura integrata invece prevede la preparazione chimica del terreno (dunque l’uso di fertilizzanti) mentre la crescita della pianta viene seguita con tecniche naturali. I prodotti a residuo zero, infine, sono quelli che derivano da coltivazioni trattate con prodotti chimici che non lasciano residui nell’alimento.

“Uno dei problemi è che le aziende produttrici sono quasi tutte troppo piccole per potersi permettere i costi delle campagne pubblicitarie necessarie per lanciare adeguatamente questi prodotti”, spiega Damiano Petruzzella, responsabile del settore agricoltura biologica dell’Istituto agronomico mediterraneo di Bari (Iamb). Così prevale l’idea che l’alimento biologico, oltre a essere assai caro, sia una “cosa fatta in casa”, secondo metodi artigianali, ma senza reali controlli di qualità. Nulla di più sbagliato. “Il prodotto biologico è l’unico che viene per legge controllato da terzi, mentre i prodotti delle oasi ecologiche, al contrario, sono assicurati dal proprietario stesso che ne garantisce la non contaminazione”, chiarisce Petruzzella.

Sarà a causa di questa disinformazione che, secondo un’indagine condotta dalla Coldiretti, il consumo dell’agribiologico è appannaggio esclusivo delle persone giovani, benestanti e con una cultura medio-alta. Tutti quelli cioè che si possono permettere di acquistare a prezzi spesso molto più alti. “Il sovrapprezzo dovuto alla produzione è del 20-30 per cento, ma la percentuale aumenta vistosamente per colpa dei distributori e dei venditori, che spesso chiedono addirittura una riduzione dei costi al produttore per poter guadagnare di più. Per risolvere questo problema bisognerebbe puntare sui gruppi di acquisto e sul mercato locale, ossia sulla vendita diretta al consumatore”, afferma Vizioli.

Nonostante tutti i problemi da risolvere, dall’informazione nelle scuole alle carenze nel settore della ricerca e della sperimentazione, in molti sono pronti a scommettere sul futuro di questa economia. “Bastano due dati per accertarne la forza: la maggior parte delle aziende biologiche ha un’estensione superiore a quelle tradizionali e gli operatori sono più giovani e più colti”, conferma Vizioli. “Si tratta di un mercato in controtendenza rispetto al progressivo invecchiamento dell’agricoltura tradizionale. Bisognerebbe smetterla di concepire il biologico solo come prodotto sano. Di fatto è un importante mezzo per lo sviluppo della gestione del territorio e per la valorizzazione delle risorse ambientali”.

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