Una minaccia per il cuore nelle padelle antiaderenti

Oggetti di tutti i giorni come padelle antiaderenti, contenitori per il cibo, prodotti per la pulizia e lubrificanti nascondono al loro interno una seria minaccia per il cuore. Questa minaccia è l’acido perfluoroottanoico (PFOA), da tempo sotto osservazione perchè sospettato di essere tossico e di essere coinvolto nell’insorgenza di cancro al fegato, al pancreas e alla prostata. Oggi però i ricercatori dell’Università della West Virginia di Morgantown mostrano per la prima volta, sugli Archives of International Medicine, un pericolo diverso legato al PFOA, quello di aumentare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.

L’acido perfluoroottanoico è una sostanza estremamente diffusa, in grado di persistere a lungo nell’ambiente e di accumularsi all’interno di un organismo. Secondo alcuni studi, negli Stati Uniti è presente nel plasma del 98 per cento della popolazione; in Italia, uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità del 2010 ne attesta la presenza nella quasi totalità dei soggetti esaminati, anche se anche in concentrazioni notevolmente più basse rispetto alla media mondiale. Già dal 2006 l’Unione Europea, ha intensificato le attività di analisi del rischio per il PFOA e sta valutando l’ipotesi di inserirlo tra le sostanze considerate inquinanti organici persistenti, di cui è vietato l’impiego.

Per capire se vi fosse un rapporto tra i livelli di questa sostanza nel sangue e l’incidenza di problemi relativi all’apparato cardiovascolare ed eventualmente di quale entità, gli studiosi, guidati da Anoop Shankar, hanno esaminato i dati relativi a 1.216 adulti statunitensi provenienti dal National Health and Nutrition Examination Survey dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention). 

“Con le nostre analisi”, raccontano i ricercatori, “abbiamo scoperto che, in un campione trasversale rappresentativo della popolazione degli Stati Uniti, maggiori livelli di PFOA sono effettivamente associati con malattie cardiovascolari e arteriopatia ostruttiva cronica”. I dati dei ricercatori della West Virginia hanno, però, bisogno di ulteriori conferme, spiega in un commento sugli Archives of Internal Medicine Debabrata Mukherjee, della Texas Tech University di El Paso.

“Ad ogni modo”, conclude Mukherjee, “dal punto di vista della collettività avrebbe senso comunque limitare o eliminare l’uso industriale di questa sostanza e altre simili, e cercare di migliorare le tecniche di purificazione dell’acqua potabile, così da eliminare definitivamente questi elementi potenzialmente tossici dalle nostre riserve idriche”.

Riferimenti: Archives of Internal Medicine doi:10.1001/archinternmed.2012.3397

Credit immagine a dollen

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